L’arte rotta (VIII). Lo spettro della noia e della prevedibilità
Che cosa succede se anche l’arte cede alle lusinghe della prevedibilità, andando ad ampliare l’orizzonte sempre più diffuso della noia? Ne parla Christian Caliandro.
Riprendendo le fila del discorso su likeability e arte contemporanea, mi ritrovo a riflettere su quale sia il vero legame tra le due dimensioni, e sulle ragioni – al di là dei sintomi superficiali ‒per cui oggi appaiano così strettamente connesse.
Gli esempi che ho fatto finora, di atteggiamenti che si dispongono a negare recisamente il mettersi-in-posa, il desiderio di piacere a tutti, il conformismo, risalgono in effetti a decenni fa: Robert Morris, Peter Saul, Francis Bacon, Federico Fellini, Philip Guston. Certo, questo potrebbe dipendere da una mia mancanza di aggiornamento, o da una cronica disposizione a rifugiarsi nelle sicurezze del passato. Il più recente dei riferimenti – e quello da cui in effetti è partito il ragionamento – è Bret Easton Ellis, non certo un autore esordiente, un ex scrittore prodigio il quale ha di fatto abbandonato la fiction una decina di anni fa e che è stato accusato appena il suo Bianco è uscito di essere fondamentalmente un reazionario, di essere offuscato dalla sua bieca condizione di privilegio ‒ a cui il titolo del libro fa peraltro esplicito riferimento ‒ e dal proprio punto di vista generazionale, oltre che da una crisi creativa.
La virulenza delle reazioni e delle condanne che è riuscito ad attirarsi si è concentrata molto, anzi, su questo suo essere imperdonabilmente fuori moda, per questo assolutamente non in grado di cogliere appieno le trasformazioni contemporanee (come dimostra la recensione di Andrea Long Chu su Bookforum).
LA QUESTIONE DELLA LIBERTÀ
Eppure, eppure. Magari un fenomeno che riguarda la cultura e l’arte, e più in generale il modo in cui le persone stanno al mondo e cercano di interpretarlo, un fenomeno che riguarda gli ultimi decenni, ma che negli anni più recenti ha subito una decisa accelerazione, esiste davvero e merita di essere analizzato. La questione della ‘libertà’ dell’opera e del suo autore (“it’s about freedom”, come diceva de Kooning difendendo Guston) è reale e presente. Non è un caso che sempre più spesso i discorsi fatti di persona sull’arte, con amici e persone che se ne occupano, con artisti e con gente che ne scrive, ruotino attorno alla sensazione – in riferimento alle fiere, alle mostre, alle biennali, alle situazioni in generale in cui ci si ‘espone’ all’influenza di opere, alla proposta di questa influenza ‒ – di noia, di ripetitività, di impasse: di prevedibilità. Questo non vuol dire che i casi imprevedibili, i casi cioè di opere strutturate dai loro autori come imprevisti e inciampi reali, manchino del tutto, quanto piuttosto che non costituiscono il modello richiesto, non corrispondono cioè a quello che ci si aspetta da un po’ di tempo che l’opera sia.
Per quanto nessuno neghi che esistano oggi opere e autori capacissimi di interpretare efficacemente il proprio tempo, ciò che sembra mancare – nella maggior parte delle opere che per così dire hanno momentaneamente superato la “validazione”, quelle cioè che sono state autorizzate a rappresentare efficacemente l’epoca ‒ è proprio l’elemento del conflitto, dell’attrito, della frizione con l’esistente: un fastidio profondo, un rifiuto di adesione a quella finzione generalizzata che è la cifra del presente (con buona pace dei recensori di Ellis). È la finzione infatti – come abbiamo già visto ‒ che presiede il desiderio fortissimo e totalizzante di piacere a tutti, di pensare come tutti, di essere in definitiva come tutti. Manca un’opera che agisca come “il grido organico dell’uomo, i calci dell’essere più profondo in noi contro ogni coercizione” (Antonin Artaud).
GLI ANDROIDI DI PHILIP K. DICK
Andy Warhol aveva molto probabilmente intuito e registrato l’inizio di questo processo, quando scriveva: “Credo che durante gli anni Sessanta la gente si sia dimenticata che cosa dovessero essere le emozioni. E non credo che se lo sia più ricordato” (La filosofia di Andy Warhol, Bompiani 1999, p. 29). Tutto questo discorso ha a che fare dunque con la conclusione di una fase storica e l’inizio di un’altra; non è un caso che, tra anni Sessanta e Settanta, autori tra loro lontanissimi come Philip K. Dick, Pier Paolo Pasolini e Alexandr Solženicyn abbiano riflettuto, con strumenti e approcci diversi, sulla mutazione che cominciava a configurarsi.
In particolare, la questione della likeability fin dall’inizio mi riporta alla riflessione che Dick ha portato avanti nei suoi romanzi e negli altri suoi testi sull’“androidizzazione” progressiva della società, e su come questa androidizzazione poggiasse fin dai suoi esordi proprio sulla prevedibilità dell’essere umano e delle sue reazioni: “L’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto, prevedibilità. È proprio quando la reazione di una certa persona a una certa situazione può essere prevista con precisione scientifica che si aprono i cancelli per la produzione su larga scala della forma di vita androide. A che serve una torcia elettrica se la lampadina si accende solo di tanto in tanto quando premi il pulsante? Qualunque macchina deve funzionare sempre, dev’essere affidabile. L’androide, come ogni altra macchina, deve agire a comando” (Philip K. Dick, L’androide e l’umano, ne La ragazza dai capelli scuri, Fanucci 2014, p. 141).
Forse, ciò che Dick non poteva prevedere è che tra queste reazioni ci sarebbero un giorno state anche le opere d’arte.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
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