La New York liminare di Antonio Rovaldi. A Bergamo
Accademia Carrara, Bergamo – fino al 17 maggio 2020. Organizzata dalla GAMeC ma ospitata dall'Accademia Carrara, la personale dell'artista emiliano è una ricognizione visiva dei confini estremi di New York. Tra sculture, fotografie, tracce audio e video, si compone un panorama che si colloca tra estetica, sociologia e archeologia del presente.
Una cartografia d’artista metodica ma libera, perché si affida alle armi dell’estetica: per il suo progetto End-Words from the margins, New York city Antonio Rovaldi (Parma, 1975; vive a Milano e New York) ha percorso le zone estreme dei cinque distretti della Grande Mela raccogliendo immagini e oggetti che evocano la presenza umana senza raffigurarla direttamente. Il progetto, che ha vinto la quinta edizione dell’Italian Council e comprende anche un libro, diventa ora una mostra alla GAMeC di Bergamo (ospitata però negli spazi dell’adiacente Accademia Carrara). L’esposizione si presenta come un’unica grande installazione che occupa un’intera sala trasformandola in un peculiare panorama semiurbano.
LOCALE E GLOBALE
Partendo dal dato concreto del territorio oggetto di studio, la riflessione si amplia diventando indagine sul concetto di limite, di confine, di terrain vague. Ma gli affondi specifici su New York (allo stesso tempo fedelmente rappresentata e trasfigurata) sono ben presenti. Vengono così messe in comunicazione l’effettiva situazione sociologica di New York e la sua natura di luogo sintomo (più che simbolo) delle trasformazioni globali.
L’intensità delle singole immagini e il loro valore simbolico sono marcati. Ma l’accostamento degli scatti e la disposizione generale costituiscono un punto in più. Si incontrano raggruppamenti basati su consonanze iconografiche discrete e non banali, alternanze di pieni e vuoti, rapporti reciproci tra le linee e le geometrie che non alterano l’efficacia del singolo scatto, né sfociano nel formalismo.
RELAZIONI DA RIATTIVARE
Tracce di pneumatici nella neve, scarpe abbandonate, recinzioni ormai inutili, alberi, animali, monumenti, piccoli oggetti quotidiani: come una mappa di relazioni sociali ormai terminate o pronte a rinascere appena il visitatore distoglie lo sguardo. La “classicità” delle immagini è solo apparente: la fotografia non è mezzo espressivo puro ma strumento di indagine e parte di un insieme che comprende anche tracce audio e video. E poi ci sono le sculture, che collegano idealmente passato remoto, presente e futuro. Una rappresenta un limulo, animale tuttora presente nella baia di New York, dalla morfologia marcatamente preistorica. L’altra è la tastiera di un computer ormai inutilizzabile, come un reperto del presente ritrovato in un tempo futuribile. Tra sociologia visiva e archeologia del presente, la mostra è un progetto ambizioso che si porge allo spettatore con discrezione, scegliendo la strada della sintesi piuttosto che la tentazione dell’archivio completo ma fine a se stesso.
‒ Stefano Castelli
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