Cina chiama Torino: la collezione di Uli Sigg in mostra a Rivoli
Il primo museo di arte contemporanea della storia italiana compie un balzo in avanti e introduce il collezionismo al centro della propria museografia, accogliendo una collezione unica e di primo piano sulla scena internazionale. Quella dello svizzero Uli Sigg. Ecco cosa troverete in mostra quando rientrerà l'emergenza Coronavirus e il museo riaprirà i battenti.
Se gli chiedi che cosa abbia imparato dalla Cina, da quando vi ha messo piede nel lontano 1979, Uli Sigg ti risponde in modo sintetico e deciso: la Cina è l’altro da noi, lasciando intendere che tutto ciò che crediamo di sapere sulla Cina forse va rivisto e si deve farlo a ogni suo nuovo balzo: da prima della rivoluzione maoista, all’azzeramento della intellighenzia operata nei centri di rieducazione dello Xinjiang (dove finì anche Ai Weiwei seguendo il padre Ai Qing, poeta candidato al Nobel e pittore comunista amico personale di Mao Zedong); da quell’“arricchitevi!” urlato ai cinesi nel 1979 dal riformatore Deng Xiaoping, alla auto-proclamazione per interposto partito unico di presidente a vita (praticamente un imperatore) da parte del grande nemico della corruzione Xi Jinping.
A cavallo tra due millenni, che stanno apparendo sempre più diversi e antagonisti (umano vs macchine), il collezionista svizzero ha cercato di tracciare un ritratto della Cina contemporanea collezionando, a partire dal 1995, arte cinese in modo sistematico, mettendo da parte il gusto personale e raccogliendo testimonianze significative dei diversi linguaggi artistici (500 artisti) che hanno inizio recentemente con la prima arte informale (e segreta) cinese per giungere al sistema di produzione dell’arte attuale, segnato da un’esplosione del numero di studenti d’arte, artisti, gallerie e musei, e ciò passando per movimenti e gruppi artistici di contestazione come Stars, che nel 1980 fece la prima mostra autorizzata d’arte contemporanea (di gusto occidentale) in un Paese che ancora oggi non riconosce lo status di artista.
Per questi motivi, e vista la quantità e qualità della collezione di Sigg (2500 opere di cui 1500 già quasi sulla via del neonato M+ Museum di Hong Kong) la mostra Di fronte al collezionista. La collezione di Uli Sigg di arte contemporanea cinese al Castello di Rivoli appare come un viaggio sintetico e icastico, quasi un saggio, lungamente meditato e costruito dalla senior curator del museo Marcella Beccaria, intorno a un qualcosa che appare più sfuggente quanto più si cerca di avvicinarlo: l’identità cinese.
LE OPERE
Ottocento cadaveri “non reclamati” inceneriti e usati come materiale da costruzione per una colonna in rovina; il dipinto di un vecchio, nudo, che ricorda Grünevald; quintali di Coca-Cola bollita fino a diventare un ammasso di cristalli neri, odorosi e amari; un archivio della Stasi cinese datato 1949 e salvato dalla distruzione dei vecchi edifici; una stanza di quadri taoisti; un grande dipinto di figli e figlie della rivoluzione ritratti come statue di porcellana; le sculture iperrealiste di due attori fondamentali della scena artistica cinese come lo stesso Uli Sigg e Ai Weiwei (nei panni dell’amico del popolo assassinato Jean-Paul Marat); le arcate a forma di Cina della grande costruzione fatta con le colonne lignee di templi distrutti dal regime; un immenso muro con più di tremila caratteri ideografici; un libretto rosso che mette in evidenza le parole censurate dall’internet cinese (dove ogni motore di ricerca o social network ha una versione ad usum Delphini epurata da ogni possibile termine nemico del popolo); il ritratto monumentale di un cavolo cinese (simbolo di un’intera civiltà); un disegno a china su carta di un gigantesco coniglio realizzato con oltre 17mila tratti.
Di fronte a queste opere la domanda su cosa sia l’arte cinese degli ultimi decenni sorge spontanea. Qual è, se vi è, il suo tratto specifico? Se è vero, come dice Sigg, che la Cina è l’altro da noi, dove va riscontrato il seme di questa alterità? Ed è possibile che sia sopravvissuto al processo di occidentalizzazione economica e sociale promosso dalla globalizzazione dei mercati?
LA SPECIFICITÀ CINESE
Forse lo specifico è un invisibile, è quel potere politico che si è strutturato attorno al partito unico e che prevede un nuovo imperatore, in una nazione che conta allo stato attuale 1,4 miliardi di cittadini. Questo invisibile è molto potente in Cina e forse l’arte cinese a differenza di altri Paesi è il frutto di un dialogo continuo e discreto con questo grande rimosso che è il potere politico. Dobbiamo darlo per sottinteso, come una premessa che decidiamo di usare come chiave interpretativa di opere che per buona parte potrebbero esser frutto di artisti occidentali. Ma se dobbiamo seguire Uli Sigg nella sua narrazione della Cina, tutto quel che ci appare non è come a noi può sembrare. La nostra corazza valoriale per-costituita ed ereditata dalla nostra tradizione non ci permette di toccare con mano la realtà cinese. Esistono dei ponti, però, come la figura di Jean-Paul Marat ad esempio. Figura di spicco della Rivoluzione francese, il giornalista e filosofo dei diritti fu assassinato da una girondina, una “compagna” che però apparteneva al ceto borghese provinciale e mal sopportava le difese del popolo dei diseredati parigini cui Marat dedicava articoli che oggi diremmo populisti. Già nel 2001 uno dei più celebri pittori cinesi di oggi, Zeng Fanzhi, aveva ritratto Marat (qui il d’après di Jacques-Louis David non c’entra). A Rivoli appare invece nelle vesti di un Ai Weiwei in resina, steso a terra, faccia al pavimento, così come ritratto dal cino berlinese He Xangyu (classe 1986, autore anche del progetto sulla Coca-Cola).
Si intuisce che per questi artisti, in quanto cinesi, Marat rappresenta una figura chiave per capire il funzionamento interno della Cina comunista che, per quanto organizzata e solida, non esaurisce però gli aspetti identitari di una nazione che inizia adesso a riflettersi nell’arte dei suoi artisti, tutti, chi più chi meno, potenziali dissidenti in quanto individui che hanno fatto della libera espressione il senso della propria vita e professione. Se l’arte avrà in Cina un ruolo sociale di emancipazione dalle strettoie inferte dalla politica è presto per dirlo. Di certo Uli Sigg è pronto con la sua donazione a permettere che almeno un dialogo (estetico) avvenga. Dopo le lungaggini dimostrate da Pechino e Shanghai (a cui il collezionista si era rivolto in primis), le sue opere giungeranno infine a Hong Kong, la città simbolo di “un Paese, due sistemi” e oggi pronta a difendere a furor di popolo la propria indipendenza e autonomia.
Se vi riuscirà sarà la storia a dirlo, e non sarà un risultato di poco conto.
‒ Nicola Davide Angerame
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati