Giovane e pittore. Gianni Politi in mostra a Pesaro
Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro – fino al 15 marzo 2020. Quarta mostra personale in tre anni dedicata a un pittore italiano per l’istituzione marchigiana. Stavolta è il turno di Gianni Politi, che – come suggerisce il titolo – introduce il visitatore alla propria ricerca artistica.
A leggerli di fila, alcuni titoli delle mostre di Gianni Politi (Roma, 1986) sembrano comporre una specie di autobiografia d’artista, frammentaria e icastica. Nightrider, Giovane pittore romano, Tra queste sale (Malandrino), In the Belly of the Serpent: espressioni perentorie, simili a sentenze, che non “spiegano” le opere, ma ne anticipano ed estendono i contenuti, fornendo preziose indicazioni attitudinali. Lo status di “pittore” e di “giovane” ricorre anche nell’ultima mostra di Politi, Benvenuto (anima del pittore da giovane). In questo caso l’artista sembra voler accompagnare il visitatore nei meandri della propria poetica; e in effetti l’esposizione curata da Marcello Smarrelli alla Pescheria di Pesaro può essere considerata una sintesi rappresentativa della produzione di Politi, almeno prendendo in considerazione gli ultimi otto anni.
Ma da dove deriva il bisogno ricorrente da parte di Politi di dichiararsi “giovane” e “pittore”? Probabilmente da una doppia necessità: da una parte rivendicare una sorta di carattere romantico e insieme esuberante legato alla propria pratica; dall’altra dichiarare uno status non genericamente di artista, ma di pittore tout court. La possibile risposta a questa domanda può offrire una chiave di lettura della poetica di Politi e, più nello specifico, della mostra alla Pescheria. I due ambienti in cui si articola lo spazio espositivo presentano i cicli pittorici che forse maggiormente hanno contraddistinto la ricerca di Politi da una decina d’anni a questa parte: il primo, allestito nella “manica lunga” della Pescheria, formato da una serie di dodici ritratti maschili; il secondo, nella sala dodecagonale, costituito da cinque grandi tele astratte. Due cicli apparentemente diversi, distanti, quasi antitetici, ma che in realtà restituiscono uno sguardo complementare.
DAI RITRATTI ALL’ASTRAZIONE
La serie dei ritratti è dichiaratamente ispirata a Studio di uomo con la barba, dipinto realizzato da Gaetano Gandolfi nel 1770. Quest’opera ha un ruolo fondamentale nella produzione di Politi: dopo averne scovato una rappresentazione in un libro di storia dell’arte, dal 2012 l’artista romano ha iniziato a riprodurla in maniera ossessiva, offrendone delle variazioni più o meno radicali, con il ritratto che tende a farsi di volta in volta caricatura cartoonesca, macchia di colore, a cambiare leggermente posizione, a galleggiare su sfondi sempre diversi, a ingrandirsi o a restringersi. All’origine di quest’attenzione morbosa c’è la somiglianza tra l’uomo con la barba e il volto del padre di Politi. Ecco allora che la serie di ritratti assume una sfumatura affettiva e, simultaneamente, i contorni di un pretesto pittorico; una reiterazione attraverso cui Politi sembra voler inseguire e abbracciare romanticamente la figura paterna e, al tempo stesso, prenderne le distanze, esorcizzarla.
I cinque quadri dell’ambiente dodecagonale sembrano allontanarsi diametralmente dall’attitudine figurativa – talvolta incerta, ma sempre esplicita – dei ritratti. Si tratta di tele di grande formato, al cui centro campeggiano delle macchie di colore scuro, simili a squarci. Il processo di realizzazione di queste opere è il risultato di una “pittura indiretta, in negativo, senza pennello”, come descritto da Davide Ferri nel testo di presentazione della mostra: Politi ha infatti montato dei lacerti (ritagli, frammenti) di altri dipinti sopra una tela monocroma, generando – attraverso un “effetto speciale” del tutto analogico – dei veri e propri buchi neri sulla “pelle” dell’opera. Pur nell’apparente distanza formale, gli uomini barbuti e le astrazioni di Politi condividono alcuni aspetti sostanziali: la condizione di indefinitezza e di instabilità, ancora più evidente trattandosi in entrambi i casi di “variazioni sul tema”; ma anche, in termini più strettamente visivi, la presenza di un corpo centrale (la testa nei ritratti, gli squarci neri nei dipinti astratti) dal quale sembra generarsi l’intera composizione; infine, più in generale, entrambi i cicli paiono animati da un approccio che fa emergere l’esuberanza del Politi “giovane” e le riflessioni meta-artistiche del Politi “pittore”.
UNA PITTURA INTIMA E IMPETUOSA
Un approccio alla pittura intimo e impetuoso, che diventa necessità irriducibile. Come scriveva Daniel Arasse, “il primo tipo di emozione che può procurare la pittura è una sorpresa, […] uno choc visivo e colorista […]. Il secondo tipo di emozione è quando, nel tempo, nella durata, nel fatto di tornare, compaiono gradualmente le stratificazioni di significato, il cumulo di significato, di riflessioni e meditazioni del pittore” (Storie di pitture, Einaudi 2014). Tutte considerazioni che sembrano adattarsi anche alla mostra di Pesaro.
Allestite nella sala decagonale, le opere astratte di Politi formano una specie di cerchio attorno a un monolite in gesso e polistirolo, su cui l’artista ha realizzato una pittura “iridescente e primordiale, una specie di gorgo a cui sembrano tendere tutte le immagini della mostra”, sempre secondo Ferri. La grande pietra, a tutti gli effetti un’installazione che dialoga con la conformazione dello spazio, sembra avere la funzione di contrappunto tra le serie di dipinti, suggerendo una possibile risposta a un’ulteriore domanda: verso cosa tenderà il pittore romano al termine della sua giovinezza?
‒ Saverio Verini
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