Gli artisti come Prometeo. C’è bisogno di nuovi eroi del pensiero
Anche la responsabile di Parallelo42 contemporary art Mariantonietta Firmani interviene sulla questione dei sussidi agli artisti. Ricordando la necessità di spostare lo sguardo dall’io individuale a quello collettivo.
Quando l’azione è inibita, esplode il pensiero alla ricerca di perché. Così in questo tempo sospeso esplodono miriadi di progetti culturali che dal reale cercano spazio nel virtuale senza ancora una chiara relazione tra vecchi pensieri e nuovi mondi.
Si legge di appelli per “salvare” i giovani artisti, si invoca la “presenza di artisti” nel progetto di ricostruzione affinché, “attraverso un pensiero e una prassi realmente creativa e innovativa, siano in grado di realizzare sintesi formale e funzionale da esigenze concrete, sentimenti condivisi e identità comuni”. Ma quali sono i sentimenti condivisi? In senso fisico e metafisico, esiste davvero qualcosa che sappia andare davvero oltre l’individuo?
Si legge di artisti che consigliano lavoretti da fare stando a casa, di raccolte di opere per aste di beneficienza promosse da un mercato dell’arte che, adattandosi al virtuale, svolge il proprio lavoro, come è giusto che sia, ma questo non c’entra con l’Arte, è un discorso altro, non considerato nelle parole a seguire. A volte s’incontrano pensieri un po’ più arditi, che propongono di coinvolgere l’arte e gli artisti per rivitalizzare i meravigliosi borghi storici.
Idea realistica e necessaria, inderogabile da molto tempo, questa dei borghi, ma si dimentica che i territori sono espressione delle civiltà che li vivono o li hanno vissuti, allora mi viene il timore che se gli artisti attuali, molti certo non tutti, esprimono il solo desiderio di auto espressione, il loro pensiero non avrebbe alcun effetto. Infatti, si ripete da anni di bloccare le costruzioni e puntare sulle ristrutturazioni ma la verità è che non ci sono valori sociali sostanziali e condivisi, che siano in grado di trattenere i giovani negli antichi borghi. Allora forse, per vivere davvero gli antichi borghi, ci vorrebbe un uomo nuovo, capace di guardare lontano nella storia per vedere lontano nel futuro!
Allora forse bisogna ripartire da nuove visioni come nel progetto di Stefano Boeri di “un’architettura per alberi e uccelli, che ospita anche umani”, solo per citarne una. I nostri borghi poggiano su basi medievali, fondati sui principi delle colonie monastiche che divennero le nuove cittadelle la cui chiave di lettura era la processione religiosa che si snodava tra i vicoli e le piazze per sfociare nella cattedrale. Quelle che erano le città medievali fondate sulle virtù pratiche della misura, dell’ordine, della regolarità, dell’onestà e della disciplina interiore; l’economia era fondata sulla produzione locale, il baratto e leggi e costumi diversi da villaggio a villaggio, come scrive Lewis Mumford ne La città nella storia. Quelli che adesso sono i nostri meravigliosi borghi, che emanano poesia da ogni pietra e che tuttavia sono deserti o quasi, sono frutto del lavoro e del pensiero dei cittadini che auto-costruivano le proprie abitazioni rispettando le regole del tempo, solo alcune poi venivano abbellite dagli artisti, gli architetti erano capomastri, si viveva in un clima di integrità dell’essere umano non scisso tra tecnologia e natura, pur nella divisione in caste, pur nella limitata cognizione dell’universo, per ciascuno la percezione della vita era globale, nel senso che c’era la percezione diffusa della reciproca indispensabilità e di ciò che era bene comune.
“Allora, se l’artista è colui che si astrae dal quotidiano, guarda nel profondo dell’io per trarne leggi universali, per cristallizzare in un frammento visivo la percezione di un minuscolo passo avanti della società, allora forse questo è il momento giusto per provare a costruire una nuova consapevolezza, che nasce dal mondo dell’arte per divenire una sublimazione culturale”.
Naturalmente tutto si evolve, percezioni e comunicazioni, ma forse si è perso il senso delle relative proporzioni, o meglio, forse il vecchio senso delle proporzioni deve fare i conti con un mondo ora, finalmente, davvero globale. Se la parola chiave dell’antico era unità, la parola chiave del contemporaneo è separatezza. Ora siamo nella condizione di totale separatezza dell’io individuo dall’io collettivo, ma anche dell’io dal sé. Come Karl Marx aveva avvisato, la patologia industriale attacca l’individuo alla sua radice vitale “L’uomo vi è realizzato come un mero frammento del suo proprio corpo“. L’uomo diventa incapace di ricomporre l’unità interiore, frammentata su scala sociale dal sistema capitalistico, dove l’individuo produce “collettivamente” il suo “isolamento”. La malattia diventa: fondamento, condizione e risultato del processo di produzione. Con la distruzione continua della vita si producono beni, si accumulano capitali. Nella società capitalista, il consumo deve abbracciare tutta l’esistenza per nutrirsi di inconsapevolezza anche attraverso la parcellizzazione dei saperi e dell’essere umano, così regna la mania del delegare al professionista di turno, come la mercificazione e medicalizzazione di ogni pensiero. Perciò è diventato più facile cercare false ragioni fuori di sé, piuttosto che rintracciare le reali ragioni all’interno del proprio pensiero e del proprio corpo. Separatezza produce distanza! L’uomo scisso tra corpo e pensiero, tra io e società, è ugualmente distante da sé e dagli altri.
Nel terzo millennio esistono ancora Paesi in cui dittatori sconsiderati costringono interi popoli alla fame e alla disperazione. Milioni di donne umiliate e uomini ridotti alla miseria sono pronti a sopportare torture pur di fuggire, e far fuggire i propri figli, verso mondi migliori, dove il benessere diffuso garantisce quasi a tutti gli esseri umani di poter usare l’immaginazione oltre che la paura, di nutrire la mente oltre che il corpo. Tuttavia, nella società del benessere vince la “distanza” tra il singolo e la società, prodotta dalla “politica della pietà” di cui parla Luc Boltanski ne Lo Spettacolo del dolore, “distanza” prodotta attraverso la “ricerca del compromesso tra diritto di proprietà e diritto alla vita o alla sopravvivenza”. Vince la “distanza” perseguita in decenni di consumismo sfrenato con il supporto della “cattiva maestra televisione” di cui parla Karl Popper, e di tutti i media devoti solo alla legge del mero vantaggio economico. Vince la “distanza” che è sinonimo di ipocrisia e indifferenza, e che ha prodotto una società che oggi appare ottusa, fragile e fortemente manovrabile, da cui emerge, drammaticamente, un individuo auto-referente, futile e narciso, completamente inutile a tutto! Un individuo che può solo chiudersi in casa e rinunciare al desiderio di consapevolezza, tassativamente delegando ogni decisione agli specialisti, in questo caso: medici e politici.
IL RUOLO DELL’ARTISTA
Allora, se l’artista è colui che si astrae dal quotidiano, guarda nel profondo dell’io per trarne leggi universali, per cristallizzare in un frammento visivo la percezione di un minuscolo passo avanti della società, allora forse questo è il momento giusto per provare a costruire una nuova consapevolezza, che nasce dal mondo dell’arte per divenire una sublimazione culturale.
Arte come unica traccia eterna dell’umanità. Roma è ancora nel Colosseo. L’Italia è sempre nella Gioconda. L’uomo è ancora il Discobolo del 455 a. C. Forse è facile condividere il pensiero di Nietzsche: “È nell’arte che la volontà di potenza s’incarna nella sua trasparenza assoluta. Perché il modo di essere dell’opera d’arte è il modo di essere dell’Universo. […] La vita stessa è un fenomeno artistico fondamentale”.
E allora certo ci vorrebbe una vita governata dall’arte e dalla cultura come nel “Nouveau Christianisme” di Saint-Simon, perché l’arte è il genio universale e il capolavoro artistico traduce la conoscenza del mondo e allo stesso tempo esprime la conoscenza individuale, rende leggibile la corrispondenza tra l’intuizione e la conoscenza, come sostiene Maffesoli.
E ancora in brevi frammenti di rotture e innovazioni. “L’arte occidentale è una lotta contro il tempo, all’interno di una civiltà che vive sul principio dell’azione, della trasformazione della natura in storia. In occidente l’arte è rottura, basta guardare la sequenza di movimenti, di scuole e linguaggi che si sono succeduti: il Romanico, il Gotico, il Rinascimento, il Manierismo, il Barocco, il Rococò, le Avanguardie storiche, le Neoavanguardie e la Transavanguardia. […] All’inizio del ventesimo secolo con la civiltà industriale, il logoramento del linguaggio diventa sempre più forte, da un lato la maggior parte della società vuole il museo come spazio rassicurante, dall’altro nascono le avanguardie che invece desumono il loro nome dal codice militare, gruppi di soggetti che si organizzano intorno ad una parola d’ordine che rappresenta percezioni e sensazioni ma anche l’utopia di una società nuova. Negli anni trenta i movimenti generosissimi delle avanguardie vengono spazzati via da fascismo, nazismo, stalinismo, franchismo, che vedono nelle avanguardie movimenti anarchici o borghesi a seconda che fossero dittature di destra o di sinistra, dittature che Picasso aveva intuito con il suo rappel à l’ordre. […] Questo perché l’arte vuole comunicare, l’artista si accorge che il linguaggio nel tempo si codifica e produce informazione ma non più comunicazione. Quindi l’arte diventa rottura, crea sorprese e inciampo visivo attraverso dinamismi e sperimentazione, perché vuole recuperare una forza di sfondamento e bucare l’immaginario collettivo anche in termini di semiologia. Ci si accorge che il linguaggio corre il rischio dell’entropia, in similitudine con il secondo principio della termodinamica per cui un quantum si disperde nello scambio energetico tra i vasi comunicanti, processo che porterà allo spegnimento del sole tra milioni di anni. L’entropia, come principio della morte che governa la temporalità, nell’arte è combattuta attraverso il rinnovamento del linguaggio che nelle avanguardie diventa atteggiamento nietzschiano. Nietzsche diceva che per costruire bisogna prima distruggere. […] L’uomo risponde alla catastrofe della morte con la catastrofe del linguaggio allestita dall’artista per confermare la vita” (stralcio di un incontro con Achille Bonito Oliva, Parallelo42, 2010).
“Del resto tutti i balzi in avanti dell’umanità sono scaturiti da catastrofi e dalla reazione alle catastrofi, non dal benessere”.
Ma, se questo è arte, va da sé che: “l’eroe, artista, svelando e compiendo la volontà di potenza, fa dell’esistenza un fenomeno estetico”. […] “lo spettatore artista è un eroe solitario contrapposto alla folla dei pecoroni, una persona che fa fronte all’angoscia della condizione umana. Questo eroe è un uomo superiore perché ha il coraggio di assumere ‘l’essere se stesso dell’individuo’”, come scrive Luc Boltanski ne Lo spettacolo del dolore. Se arte e artisti sono tutto questo, allora indirizzando lo sguardo verso una “coesistenza pacifica delle differenze”, l’arte può accendere nuove visioni, prospettive, possibilità. E forse tutto il mondo dell’arte, prima degli altri, può e deve trovare il coraggio di guardarsi nel profondo e cercare di capire di cosa davvero ha bisogno l’uomo del terzo millennio.
Ora più che mai c’è bisogno di eroi del pensiero. Che siano da architetti o filosofi, imprenditori o artisti, politici o economisti, basta che siano Esseri Umani capaci di assumere le proprie responsabilità, e trovare sinergie propulsive, nel rispetto reale del singolo, della collettività e della natura, per tornare a essere protagonisti e attori non più solo consumatori della vita! Specie in questo momento così drammatico e così incredibilmente carico di immense nuove possibilità! Del resto tutti i balzi in avanti dell’umanità sono scaturiti da catastrofi e dalla reazione alle catastrofi, non dal benessere. Il benessere ha poi sviluppato e innovato i contenuti fino al nuovo momento di rottura.
Tornando all’Arte, ci sarebbero altri milioni di parole e pensieri ma chiudo con le parole di un grande artista.
“Credo nella forza della bellezza. Secondo me la bellezza si basa sulla convergenza di un pensiero estetico e di un principio etico. Per questo motivo, credo ancora che l’arte possa cambiare una società. Credo ancora che una buona mostra o una buona pièce teatrale possano curare le piaghe nella mente di uno spettatore. Credo ancora, in qualità di artista, che si possano svegliare il corpo e la mente degli spettatori. Perciò sento in primo luogo il bisogno di guardarmi dentro, di capire cosa rappresento per la società, cosa significa essere umani nella società, dove ci si colloca in quanto umani, mediante il lavoro, il pensiero, le tracce che si lasciano con l’arte visiva o la scrittura. E ovviamente il passo successivo è che alcune opere vogliono comunicare, altre rifiutano di comunicare, perché persino il rifiuto di comunicare di alcune opere rappresenta una decisione storica, parla di una presa di posizione storica. Forse alcune opere non vogliono comunicare perché non desiderano essere incluse nella società dello spettacolo. Perché l’arte a volte ha bisogno di allontanarsi dalla società dello spettacolo. L’arte necessita di una sorta di tranquillità, di una specie di rifugio silenzioso ove creare il vero legame segreto tra lo spettatore e l’opera d’arte. Per spettacolo, intendo lo spettacolo dell’economia, del commercio; dell’inflazione dell’immagine e della cultura. […] Un artista deve essere come Prometeo, perché ruba il fuoco fonte di vita, lo ruba agli dei per darlo agli uomini e renderli capaci di creare la propria vita. Così io rubo il fuoco o lo prendo da altri artisti, filosofi e scrittori e cerco di trasmettere il fuoco ad altre persone” (intervista con Jan Fabre, Parallelo42, 2008)
‒ Mariantonietta Firmani
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