Dalla Cina all’Italia: contagio ai due poli opposti del mondo nel racconto di Rui Wu
Curatore, fotografo e fondatore dello spazio indipendente T-space, Rui Wu si è trovato nel mezzo di un viaggio tra Cina e Italia al momento esatto dello scoppio dell’epidemia. Alcune riflessioni e il racconto della sua esperienza in questa intervista.
Rui Wu(Cina, 1991) è un curatore e fotografo cinese che risiede da anni a Milano. Si è laureato al Biennio Specialistico di Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera e attualmente insegna nel corso di Nuovi Media presso la scuola di fotografia Bauer. Nel 2015 ha lavorato al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano come assistente per la produzione della collettiva di artisti cinesi Jing Shen; subito dopo, ha lavorato con Yangjiang Group, all’interno del progetto The Indipendent del museo MAXXI di Roma. Durante il corso di studi, ha co-fondato T-space, una realtà indipendente che lavora come studio fotografico e piattaforma di servizi, ma anche come spazio espositivo e di residenza per artisti emergenti. La storia che ci racconta, simile a quella di molti cinesi residenti in Italia, parte dalla fine di gennaio, quando è tornato a Pechino per festeggiare il Capodanno cinese con la sua famiglia. È stato il momento dello scoppio dell’epidemia di coronavirus in Cina e della repentina chiusura di attività commerciali, intere città, voli nazionali e internazionali. Una minaccia invisibile che ancora in Europa e nel resto del mondo era percepita a malapena, come qualcosa che non avrebbe mai potuto riguardarci. Ecco la storia del rapido dietro-front di Rui Wu e alcune riflessioni da parte di chi ha vissuto l’incombere del lockdown ai due poli opposti del mondo.
Hai vissuto il Covid-19 in due parti del mondo, Italia e Cina. Quali sono stati i tuoi spostamenti?
Avevo prenotato il volo per tornare in Cina e festeggiare il capodanno cinese, previsto per il 25 gennaio. Qualche giorno prima mia madre mi aveva avvisato di andare a comprare le mascherine per il viaggio, a causa di un virus molto simile alla SARS del 2003 che iniziava a espandersi. Lei è una dottoressa. Il giorno della partenza ho visto le notizie su questo virus alla TV dell’aeroporto. Ovviamente nessuno ci dava ancora peso. Durante il viaggio è stato tutto tranquillo come al solito: ho fatto scalo a Parigi, da lì ho preso il volo per Pechino. Nessun controllo particolare. Durante il viaggio nessuno usava la mascherina, ma appena sceso all’aeroporto di Pechino mi sono accorto che più di metà delle persone la indossavano, così l’ho messa anche io. Questo succedeva la mattina del 23, due giorni prima del capodanno. Il giorno che hanno chiuso Wuhan.
Cos’è successo a seguito dell’applicazione delle misure restrittive?
Il 29 gennaio la British Airways ha sospeso i voli, il 31 gennaio l’Italia ha sospeso tutti i voli diretti da e per la Cina. Ancora non mi preoccupavo, perché il mio biglietto era Air France. Ma pochi giorni dopo hanno iniziato a bloccare i voli in massa, compreso il mio. Nelle prime 72 ore il servizio clienti è stato preso d’assalto e non funzionava. Ho iniziato a controllare più di due volte al giorno quali agenzie aeree volassero ancora da Pechino. Il quarto giorno ho saputo che il mio biglietto era stato cambiato automaticamente: Pechino – Amsterdam – Milano.
E com’è andata una volta che sei partito per tornare in Italia?
Il viaggio di ritorno è parso veramente una situazione di guerra, a partire dal personale aeroportuale che a ogni passo controllava la temperatura con il dispositivo a infrarossi. Prima di uscire dalla frontiera, sono stato informato ufficialmente che altri Stati avrebbero potuto cambiare il proprio regolamento interno nell’arco della durata del mio viaggio, con il rischio di rimanere chiuso fuori dall’Italia o dall’Unione Europea. Tuttavia sono stato fortunato, nulla è stato modificato e il viaggio si è concluso bene. Sul volo tra Pechino e Amsterdam tre quarti dei posti erano liberi.
Si avvertivano al tempo le differenze di misure di precauzione tra Cina e resto del mondo?
All’aeroporto di Amsterdam mi sono trovato davanti a uno scenario diverso: nessun controllo di temperatura, nessuno con le mascherine addosso, tutto come se nulla fosse. Al rientro a Linate mi hanno fatto un test con infrarosso, nulla di più.
Cosa hai fatto una volta giunto nella tua casa di Milano?
Con Trenord e metro sono arrivato a casa. Ho lavato tutti i miei vestiti, ho fatto la disinfestazione della valigia, mi sono buttato sotto la doccia, dopodiché è iniziato il mio auto-isolamento volontario di 14 giorni. Siamo al 7 di febbraio.
Come hai affrontato la quarantena?
Credo che a questo punto non c’è molto da raccontare riguardo alla pratica quotidiana della quarantena, la stiamo facendo tutti. La differenza è che prima ero io il sospetto contagiato, ora lo sono tutti quanti. Dal 22 febbraio ho iniziato a avvisare chiunque di prepararsi alla pandemia. Mi prendevano per pazzo. Poi, durante il periodo “basta allarmismo, è solo una influenza” cercavo di dire di non crederci, che le cose non stavano affatto così.
Quali sono le differenze che hai riscontrato tra Italia e Cina nel gestire la crisi?
Credo che la differenza più grande sia nella coscienza sociale. Io, come tanti altri cinesi, ricordo ancora cosa è stata la SARS del 2003. Abbiamo paura di questi eventi, perciò reagiamo subito in un certo modo, a livello nazionale, sociale, ma soprattutto individuale. Invece qui le persone non avevano questo tipo di coscienza all’inizio. La cosa che hanno temuto di più al primo impatto è stata la crisi, la recessione economica.
Trovi che ci siano stati degli errori da parte dell’Italia?
Secondo me non ha senso di parlare di errori, preferisco pensare che l’Italia abbia fatto del suo meglio. Lo Stato non è disegnato per affrontare una pandemia del genere, come una Ferrari non è progettata per fare il lavoro di un sottomarino. Ovviamente sembra che stia girando la frittata.
Spiegaci meglio.
Lo scienziato di riferimento per il covid-19 in Cina, Zhong Nanshan, diceva “Se avessimo chiuso Wuhan cinque giorni prima, avremo ridotto il numero di contagio a un terzo rispetto a quello reale” (stiamo parlando cioè di meno di 3mila persone). “Invece, se avessimo chiuso cinque giorni più tardi, avremmo rischiato di avere più di 350 mila contagiati”. Inoltre, credo che la prima laurea di una persona determini molto la sua mentalità. Ho notato che i “capi” in Italia sono spesso laureati in giurisprudenza, tantissimi avvocati. Invece, solo tra gli ultimi tre “capi” cinesi ce ne sono due laureati in ingegneria e uno in chimica.
Stai usando il tuo canale Instagram per raccontare la quarantena… qual è il tuo progetto?
Non penso che diventerà un progetto. L’ho usato per passare alcune informazioni tecniche agli amici per affrontare la pandemia, poche ma utili, un po’ di sfogo inevitabile. La sua funzione principale è contare i giorni, come un diario per rendermi conto di ciò che successo. Al pari di un prigioniero che segna i giorni sul muro. Per non perdere la speranza. La cosa triste è che lo facevo già così anche prima del coronavirus, come tante altre persone.
Stai realizzando altri progetti artistici in questo periodo?
Sto facendo le polaroid a casa. Cerco situazioni interessanti di illuminazione quotidiana. Sto notando delle differenze che prima non vedevo. Partecipo ai progetti di altri artisti e faccio anche acquerelli. Erano anni che non dipingevo, perché mi fa ricordare troppo la disciplina. Ora posso finalmente tornare al punto di partenza, come da piccolo: faccio una pratica piacevole per passare il tempo, e restare calmo.
Ci sono attività legate a T-space?
Avevamo previsto una mostra collettiva per l’Art Week, dovevamo fare altre collaborazioni video, ma ora è tutto in standby. Il cuore di T-space è lo studio fotografico, una micro attività commerciale. Ci aggiorniamo costantemente sulla nostra previsione riguardo a quest’anno, per capire come reagire dopo la chiusura. Gli operatori d’arte sono al massimo della precarietà. Non siamo mai stati aiutati da nessuno, quindi non aspettiamo particolare sostegno per la nostra attività culturale. Se posso dire, la nostra attività di adesso è lasciare il nostro pubblico in pace.
-Giulia Ronchi
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