Fate presto. L’appello al governo di Sergio Risaliti per salvare gli artisti
Gli artisti sono al centro della filiera, eppure i soggetti più a rischio. Cosa accadrà a intere generazioni di artisti? Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze, si appella al governo per la creazione di nuove forme di sostegno.
Siamo nell’occhio del ciclone. E quando ne saremo fuori, conteremo i danni alle persone e alle cose. Piangeremo i morti, cureremo le ferite. Faticheremo moltissimo a ripartire. Ci rivolgeremo agli esperti di scienza e dell’economia, ai massimi interpreti della geopolitica per capire come riparare i danni e sostenere i nuovi inevitabili sacrifici. Ma avremo soprattutto bisogno di artisti e di poeti, di coscienza critica, di idealisti e sognatori, perché nel tempo della povertà sono loro gli unici capaci di andare a fondo, di rischiare le domande più importune, quelle più scabrose e antipatiche, quelle meno alla moda e che non producono necessariamente il consenso. Forse troveremo i rimedi scientifici e finanziari, per scoprire poi che hanno purtroppo vita breve; fragili panacee di massa a tappare le falle di una civiltà che a stento ormai galleggia nel tempestoso mare della globalizzazione. E allora prepariamoci a prendere sul serio le critiche ai modelli di sviluppo, alle politiche di sfruttamento, alla ingiusta distanza tra pochi e molti, tra ricchi benestanti e poveri nullatenenti. Adesso, siamo giustamente angosciati per la salute e per la spaventosa crisi economica. Un combinato che sarà causa di altre epidemie psicologiche e morali, un terremoto sociale di cui non possiamo giudicare ancora la scala Mercalli. Domani, ancora più che oggi, avremo bisogno di guardarci nello specchio delle opere d’arte e della letteratura. Avremo necessità di riflettere e di andare a fondo, di rivoltare il pensiero di questi giorni come un terreno su cui coltivare la reazione, il cambiamento. Saremo obbligati a ripensare a tutto quello che di negativo e di positivo –perché ci sono anche aspetti positivi- abbiamo sperimentato e scoperto durante questo tempo estremo; un tempo vissuto nella sospensione di futuro e passato, ora che il presente si è fermato. Abbiamo alle spalle un passato da correggere e davanti ci si prospetta un futuro a rischio. Stiamo vivendo il cambiamento in una contrazione temporale inedita, inaudita e inattesa. Ci siamo arrivati per causa di forze maggiori: l’imprevedibile ci ha raggiunto in modo repentino e drammatico, e ora ci obbliga a rinegoziare il nostro patto con la sopravvivenza e con il progresso. Due orizzonti che oggi più di ieri si mostrano contrapposti e non allineati.
ARTISTI A RISCHIO
R.M. Rilke sosteneva che gli artisti sono i più a rischio. Ora lo sono veramente. Lo sono perché non hanno nessuna tutela alle spalle. Perché il sistema dell’arte sta entrando in una tempesta perfetta. E perché, più banalmente, anch’essi sono in difficoltà seria e come altri disagiati travolti dalla pandemia e dalla crisi temono per la loro salute e per quella dei loro cari. Anche loro provano sentimenti di angoscia che deriva dal fatto di non poter pagare l’affitto, di non essere in grado di sostenersi dignitosamente nel quotidiano, di non avere la possibilità di lavorare nei propri studi. Insieme a quella di migliaia se non milioni di italiani anche gli artisti stanno per entrare a far parte della schiera dei senza lavoro con poche risorse. Si dirà che la povertà allinea tutti e non fa differenze o sconti a nessuno. Certamente. Penso tuttavia che il problema della vita degli artisti nel nostro paese e della loro sopravvivenza creativa sia un grosso problema di civiltà; a meno di non giudicare la loro professionalità e il loro valore poetico qualcosa di marginale e non funzionale nella società. Cosa che tante volte abbiamo riscontrato a livello politico e in gran parte della società. È questa, d’altronde, una vecchia faccenda. Ai primi del XX secolo molti degli artisti, tra quelli che oggi ammiriamo e celebriamo come fari della cultura italiana nel mondo, se ne scapparono dal paese per cercare fortuna all’estero, soprattutto a Parigi. Cercavano un ambiente fecondo, dove poter contare su un mercato generoso, su una maggiore considerazione pubblica. Vennero definiti meteci, e non ebbero vita facile. Ma ci provarono a fuggire da un paese conservatore, retrogrado, clericale, bigotto, fermato sulla rendita di posizione, fondamentalmente antimoderno. “Io vendo pochi quadri, a pochi raccoglitori più incuriositi che convinti, a bassissimo prezzo, giusto per comprare i colori”, lamentava Renato Birolli negli anni trenta del secolo scorso. L’arte contemporanea non godeva in Italia di grande fortuna. Soffici più o meno tre decenni prima di Birolli notava: assenza di cultura, inesistenza di critica, incoerenza di mercato, povertà di raccoglitori. In un mondo incapace di organizzarsi e darsi unità di intenti le strutture sono spaesate, manca il mercato ed è assente un collezionismo in grado di produrre ed espandere una concreta attenzione ed investimenti condivisi in base a scelte e preferenze. È trascorso un secolo e da allora sembra che la situazione si di poco migliorata.
E I GIOVANI?
Sono preoccupato, fortemente preoccupato, per la sorte di molti artisti, giovani e non solo. Ecco la ragione di queste note, assieme a certe proposte o richieste che preciserò di seguito. Non vorrei che come al tempo del secondo conflitto mondiale i giovani artisti di oggi arrivassero a ringraziare l’arrivo di beni di prima necessità come fecero Guttuso e Mafai che dovettero alla generosità di Alberto della Ragione il loro sostentamento durante i gironi spaventosi della dittatura nazifascista, quelli delle persecuzioni e della guerra. Il generoso e coraggioso collezionista -cui si deve la nascita del Museo Novecento a Firenze- non portava ai suoi artisti denari, ma viveri, beni di prima necessità: olio, carne, stoffe per cucire vestiti e i materiali per creare opere. Mesi fa ho proposto all’Assessore alla cultura di Firenze Tommaso Sacchi, sulle pagine di un quotidiano locale, di creare un fondo di investimento per acquistare opere d’arte di giovani artisti (e nel nostro paese la categoria arriva disgraziatamente fino alla soglia dei 40 anni e oltre), da utilizzare anche per sostenere la ricerca e la formazione di curatori e critici, una base di avvio di una seria progettazione di mostre dedicate all’arte moderna e contemporanea. Non avevo previsto quello che poi è accaduto, la crisi che ci travolgerà nei prossimi mesi in modo ancora più drammatico per quanto riguarda risorse e investimenti. Partivo dall’analisi del deficit strutturale di una strategia da impresa culturale, così evidente nel nostro paese, nonostante i proclami di modernizzazione e alcune prove empiriche di organizzazione di bandi e borse di studio. Vorrei, quindi, proporre di nuovo oggi la questione, ma questa volta la vorrei far arrivare al nostro Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che è molto sensibile e attento, e soprattutto molto vicino al mondo dell’arte. In un momento di crisi spietata come questa, è il momento di restituire centralità nel sistema dell’arte al rapporto tra artista e museo, tra artista e sistema pubblico. È il momento di far sentire la presenza e necessità sui territori delle strutture museali e dei centri d’arte pubblici, come strumenti indispensabili ora più che mai alla tutela della creazione artistica e della formazione critica e curatoriale. È il tempo di rimpolpare le collezioni dei nostri musei di arte contemporanea, puntando sulle nuove generazioni che sono il nostro presente e l’immediato futuro. Rischiamo di perdere per strada una o due generazioni. Rischiamo di indebolire ancor di più il nostro sistema, che già soffre di molti handicap nella competizione internazionale. Qualcosa fortunatamente si è fatto negli ultimi anni. Adesso l’intervento deve essere assai più massiccio e strutturato. Prima che la crisi produca danni irreversibili al sistema, e lo faccia colpendo dalle sue fondamenta: gli artisti e di seguito musei e centri d’arte, senza poi dimenticare la miriade di associazioni e spazi d’arte che hanno dato ospitalità agli artisti e ai curatori, luoghi di aggregazione sociale, in una rete diffusa utile al sorgere e crescere della creatività d’avanguardia.
UN APPELLO PER UNA SOLUZIONE
Tutta la filiera –lunghissima e articolatissima- si regge, volenti o meno, sull’artista e la sua opera, sul museo e la sua funzione di storicizzazione, su quella formativa, indispensabile strumento per una conoscenza di base e per la propagazione di una sensibilità condivisa. Il museo poi è, come noto e da qualche secolo, obiettivo principale di ogni carriera artistica, e resta punto di riferimento anche dei collezionisti e delle gallerie. Se questi due fondamentali e necessari attori del sistema collassano, ecco che il sistema intero entra in crisi. Ora gli artisti sono i più a rischio, non solo poeticamente, adesso lo sono parlando da un punto di vista materialistico. L’artista non si ferma neppure nei momenti più drammatici, lo sappiamo: produce instancabile come sempre, forse è ancora più motivato adesso dalla drammatica esperienza che tutti viviamo. Nel suo intimo le sensazioni collettive si riproducono ingigantite e cercano uno sbocco per essere testimonianza un domani di quanto vissuto oggi. Bloccato il circuito commerciale, quello espositivo, quello di formazione, l’artista isolato e tenuto ai margini, e in più senza risorse, entra in una situazione di difficoltà oggettiva. Mentre ogni altra categoria è tutelata da sistemi di assistenza, di protezione sociale e salariale, i giovani artisti non hanno nessun meccanismo di questo genere a garantire loro la dignitosa sopravvivenza. In questi giorni sono molto preoccupato della sorte di generazioni di artisti. Si dirà che sarà fatta una selezione durissima, che pochi potranno resistere e rialzarsi. Si dirà che agli artisti compete vivere e produrre nel disagio e nella sofferenza. Può essere.
NON È TEMPO PER UNA ARISTOCRAZIA DELL’ARTE
Spero tuttavia che, a livello del governo centrale e delle amministrazioni pubbliche, non ci si accontenti di questa vulgata romantica, e si mettano, piuttosto, in campo soluzioni di sostegno e di benefit che possano dare speranza non solo ai pochi ma ai più, che facciano sentire gli artisti come vitali alla felicità della collettività e che facciano intendere che l’arte, la creazione contemporanea è un bene necessario alla salute pubblica, indispensabile al mantenimento del benessere spirituale e non solo materiale di una civiltà intera. L’entrata in gioco del governo e delle amministrazioni vorrebbe dare un segno non di protezione paternalistica, ma di civile e moderna cura del proprio patrimonio che non è solo quello del passato. Infine, significherebbe aver compreso che l’arte contemporanea è fattore di identificazione e promozione di una peculiare identità italiana, forse il principale prodotto del made in Italy. Non è questo il momento di pensare a una aristocrazia dell’arte. Il sistema dell’arte ha molte pecche, è difettoso, e uno dei maggiori problemi è l’interesse marginale che suscita nel mondo politico e in quello culturale. Giusto dire che le città senza teatri e cinema aperti sono città spente. Aggiungiamoci anche loro in questo genere di appelli che circolano in questi giorni in Italia: comprendiamo nella lista anche gli artisti e i musei. Un’epoca segnata da grandi personalità nasce dal sottosuolo dove crescono e si nutrono i talenti; e senza sottosuolo neppure i grandi potrebbero emergere. Puntiamo al sodo e non facciamo passare tempo. La depressione, l’angoscia, il vuoto davanti noi tutti, saranno sicuramente una bella importante esperienza per chi fa arte. Ma la dignità sociale, la sopravvivenza materiale, è essenziale per sentirsi amati, rispettati e valorizzati dal proprio paese. Concludo gridando ai nostri governanti:“Fate presto”.
–Sergio Risaliti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati