Sul futuro dei musei. Intervista Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Castello di Rivoli
Come sarà il futuro dei musei? Lo abbiamo chiesto in diretta su Instagram a Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Castello di Rivoli.
10 alle 10 è il format lanciato su Artribune in diretta su Instagram che vede alle 21.50 per l’appunto il direttore di Artribune Massimiliano Tonelli, confrontarsi con i protagonisti dell’arte e della cultura italiana. Abbiamo visto infatti nel corso di un mese svolgersi i dialoghi con gli influencer Giulio Alvigini e Andrea Concas, la presidente del Maxxi Giovanna Melandri, il curatore Angel Moya Garcia, il direttore della GAMeC di Bergamo Lorenzo Giusti, l’architetto Lorenza Baroncelli direttore della Triennale, gli uffici stampa Paola Manfredi e Lara Facco, il direttore di Federculture e presidente della Quadriennale Umberto Croppi, l’assessore alla cultura dell’Emilia Romagna Mauro Felicori, l’assessore alla cultura del comune di Firenze Tommaso Sacchi e lo storico dell’arte Costantino d’Orazio, tra gli altri. Lo scorso venerdì 17 aprile Tonelli ha intervistato Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. Insieme hanno analizzato la situazione in corso, le possibili ricadute sul sistema dell’arte e il futuro (e il presente) dei musei. Ecco che cosa è emerso…
Carolyn torniamo indietro ai primi giorni di questo strano periodo che stiamo vivendo… Come sono stati?
Rocamboleschi. il 24 febbraio dovevamo inaugurare la mostra dedicata alla grande collezione d’arte cinese di Uli Sigg, insieme ad una mostra dedicata a Morandi e ad un progetto nuovo dell’artista Renato Leotta. Il 24 sera, invece, il museo è stato chiuso e abbiamo dovuto fare uno streaming con Sigg e Ai Weiwei, bloccato in una stanza di albergo in un’altra città. È stata la prima inaugurazione del Castello di Rivoli senza pubblico, con solo con noi dipendenti a presenziare. Tra le cose positive… negli ultimi mesi lavoravamo ad un progetto di upgrade tecnologico anche per i social, ai workshop con i poeti realizzati anche con Gianluigi Recuperati, e stavamo lavorando coi creativi Leftloft alla nuova sede del museo online Cosmo Digitale, che abbiamo potuto inaugurare il 4 marzo. Era già in cantiere, doveva essere una sezione del sito, invece lo abbiamo aperto un po’ di corsa. Cosmo Digitale è stato molto apprezzato, in Italia ma anche fuori, ha avuto un immenso impatto.
Ci spieghi meglio il progetto?
Quando sono stata direttore della Biennale di Sydney, nel 2007? In quella occasione ho voluto creare una sede online, un luogo dove le opere si potevano esperire solo in quella versione, perché in quegli anni stavamo uscendo dalla prima ondata di arte digitale (con opere come Black Amazon), ed ero attenta a quell’aspetto. Con Cosmo Digitale ho voluto riprendere il concetto, creando non uno spazio di partecipazione e approfondimento come un social, ma uno spazio a se, un luogo per le opere d’arte, ma opere d’arte fatte specificamente per essere visitate online. Ad esempio quelle di Giuseppe Penone: l’artista non le metterebbe mai in galleria, sono un po’ come un carosello, un intervallo riempito da qualcosa che non ha un senso, quanto un senso poetico.
Una delle caratteristiche di Cosmo Digitale è che punta sul web, e non sui social come gli altri musei: la vostra scelta di valorizzare il sito web è voluta?
È stata una scelta classica, Cosmo è solo metà della risposta, l’altra metà è portata avanti sui social dal nostro programma educativo Artenaute. Insieme si compone un mosaico con due facce, la faccia museale e conservativa sul sito, con la parte didattica sui social media.
Domanda del pubblico: Biennale di Venezia (o comunque grandi mostre) in digitale sì o no?
Innanzitutto Cecilia Alemani ha un po’ di tempo, si parla del 2021, quindi speriamo di no. Io credo fermamente della relazione del corpo con le opere, la parte online deve essere una parte un aspetto della nostra vita, non esiste un confine tra la mente e il corpo, e il computer o lo smartphone: certo che le fiere online un po’ hanno funzionato ma manca l’aspetto importante della relazione umana, il pensiero laterale di un caffè diverso, la scarpa con il tacco che non devi portare in fiera…. Non mi auguro una Biennale online. Questo periodo è stato un banco di prova, dove si poteva immaginare il modo in cui la cultura poteva andare… Ma i giovani con cui parlo sono la prova del contrario, dei limiti, dei segnali che c’erano già prima. Ad esempio ci sono giovani radicali, che lasciano il cellulare a casa, antitecnologici…
Quegli embrioni diventeranno più forti, e poi il tutto si assesterà con un minore entusiasmo per il digitale, un po’ come quando ti abitui all’elettricità, l’entusiasmo cala e ci si assesta su un equilibrio.
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Ti pongo la stessa domanda su Rivoli: cosa avete in programma nei prossimi anni per quanto riguarda la VR?
Da anni lavoriamo sulla meta reality: la mostra di Anri Sala, era realizzata nel suo studio in VR, ricreando lo spazio. L’artista ha potuto riunire altre opere in un’architettura dove il pubblico interagiva direttamente; questa danza era uno strumento, non una modalità di percezione della mostra. Gli artisti più bravi usano la VR come strumento, possono anche fare opere sul tema del VR. Abbiamo acquistato Real Violence di Jordan Wolfson che fece scandalo alla biennale di Whitney, presentando una scena di violenza cruda. Quella era un’opera sul tema della violenza della tecnologia, oggi parliamo di app sì, app no, facciamo come la Corea o no… Sono tutti discorsi improntati su un’analisi della possibile violenza, su una doppia faccia. Abbiamo in programma anche un’altra mostra di Wolfson, ma non vi anticipo nulla… sarà pazzesca!
Come direttore come si affronta uno scenario così incerto?
Con la flessibilità. Il lavoro con gli artisti è un lavoro che richiede un incredibile flessibilità. Può succedere che un mese prima della mostra un artista abbia un’intuizione o una crisi di panico! Sono flessibili anche le persone con cui lavoriamo e che a loro volta lavorano con gli artisti: siamo ormai alla seconda generazione di questo gruppo di persone, la prima lavorava vicino a Mario Merz a Jannis Kounellis e quindi hanno imparato una cosa fondamentale dell’arte, l’hic et nunc. L’opera è un processo, un pensiero sulla processualità.
Il 4 maggio avresti dovuto inaugurare la mostra di Anne Imhof…
Sì, la abbiamo rimandata. Era già mezza allestita ed organizzata con Tate e The Art Institute of Chicago. Abbiamo voluto lavorare con Anne perché il suo lavoro incarna i concetti di aggregazione e disgregazione di masse di persone. Con lei oggi ci chiediamo: come sarà l’opera di Anne Imhof Post Covid, sarà illegale? Lo vedremo.
Speriamo che le norme Post Covid siano temporanee, che durino qualche mese fino al vaccino altrimenti dovremmo ripensare a tutto…
Speriamo, ma siamo entrati in un’epoca in cui speriamo di combattere le pandemie con l’intelligenza artificiale. Non è detto che si torni come prima del Covid, del tutto.
Cosa ti arriva dall’estero come feedback, i colleghi cosa dicono fuori?
Ci sono molte differenze tra Europa e America e tra America e il resto del mondo. Chi sta soffrendo di più è proprio l’America. Si tratta di una bella lezione, vista quest’ansia di privatizzazione arrivata anche da noi. La maggiore difficoltà la stanno vivendo quei musei come il MoMA che hanno l’80 % degli introiti dal turismo, anche perché i finanziamenti spesso sono bloccati… Magari ci sono milioni, ma si lavora con gli interessi. Glenn Lowry prevede che ci vorranno almeno due anni prima che tutto torni come prima. Anche se dovessero riaprire, infatti, ci sarebbe solo il pubblico locale, un 20% del pubblico del museo. Un grosso problema per una istituzione come il MoMA. Più o meno ovunque c’è la cassa integrazione. Anche la Serpetine Gallery andrà in cassa integrazione da maggio, per dire…
Come siete organizzati con il tuo team, come vi tenete in contatto?
Prima viaggiavo sempre ed ero sempre al telefono o in video conferenza con la gente al museo, e oggi ancora sono al telefono e in video conferenza con il team che oggi è a casa. L’aspetto inquietante di questo momento è che mi ricorda la rivoluzione industriale, quando le persone filavano tessuti nelle case prima delle norme di fine ‘800. Anche qui c’è tutta una legislazione che non c’è, che regoli lo smart working, non solo per monitorare chi lavora, ma il diritto alla felicità di chi è costretto a lavorare a casa senza il contatto personale. Noi abbiamo una stanza su wearby.com/castellodirivoli con tutte le caratteristiche del Castello di Rivoli, nel bene e ne male
–Massimiliano Tonelli
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