Messaggi dalla quarantena #3. Oggetti inanimati e natura morta
Terzo episodio della rubrica dedicata alle riflessioni degli artisti sulle tematiche messe in luce dalla quarantena. Stavolta a “parlare” sono gli oggetti inanimati e il concetto di natura morta.
Ci siamo riempiti di oggetti, li abbiamo riscoperti nella nostra quotidianità, anche loro costretti in casa come noi. Ci siamo riempiti di cose, cibo, sogni nel cassetto. Molti di noi hanno cominciato a cucinare ‒ e a mangiare ‒ come non ci fosse un domani, pasticcini di proustiana memoria. Ad altri i lauti pasti stanno andando di traverso, perché là fuori c’è troppa gente che soffre. Urge sparecchiare, fare ordine, ricominciare. I nostri oggetti, le nature morte di cui ci circondiamo, ci raccontano moltissimo di noi e del nostro tempo. Ecco cosa ne pensano i nostri artisti: Sergio Zavattieri, Salvo Catania Zingali, Alessandro Finocchiaro, Giovanni Blanco, Roberta Baldaro.
‒ Mercedes Auteri
LE PUNTATE PRECEDENTI
Messaggi artistici dalla quarantena #1. Paesaggio senza figura
Messaggi artistici dalla quarantena #2. Il trauma, il lutto, il dolore
SERGIO ZAVATTIERI
Abbiamo vissuto, almeno sino a oggi, in un mondo dove bisognava arrivare primi e arrivare prima, dimenticandoci dell’importanza fondamentale di tutto il resto. Dopo questo periodo complesso spero si arrivi a un equilibrio che porti a capire come vivere meglio. Per me lo stato umano più comune, generatore della creatività più profonda, è quello di non sentirsi adeguati, di sentirsi fuori posto, a prescindere dalle epoche e dalle posizioni sociali. Sin da bambino ho vissuto in questo stato, che ho immediatamente assimilato e accettato, fino al punto di convertirlo in qualcosa di positivo. Fare un lavoro di introspezione richiede molta pazienza, è un lavoro lungo e difficile, totalmente in contrasto con la frenesia e la superficialità che impone la fretta dettata dal risultato immediato in cui si viveva fino al giorno prima del lockdown.
La serie di fotografie Botanica, su cui ho lavorato dal 2005 al 2015, è una collezione di piante e fiori artificiali fotografati in studio tra Italia, Spagna e Germania, che sono i luoghi in cui ho vissuto in quegli anni. È un lavoro su come l’uomo senta la necessità di riprodurre e gestire ogni cosa, di avere il controllo scientifico della realtà, dimostrando così un certo timore verso l’incognito, ma soprattutto su come la nostra educazione alla visione, e direi non solo più questa, non ci permette più di distinguere il vero dal falso.
Negli ultimi anni, invece, sto lavorando a una serie di fotografie che ha per titolo Variazioni infinite, anche in questo caso still life, e anche in questo caso i soggetti sono ricostruiti dall’uomo. Considero questa nuova serie di fotografie una sorta di rinascita, o per lo meno un auspicio, un invito all’unione, pur mantenendo l’esigenza per me fondamentale di parlare del tempo e di guardare al passato, perché è da lì che nasce ogni cosa nuova. Se la serie Botanica conteneva un omaggio esplicito a Karl Blossfeldt, la serie Variazioni infinite in qualche modo è un omaggio a Giorgio Morandi, una riflessione sul legame e sull’unione come ho detto, che rimane salda pur mantenendo una pluralità di forme e di colori, un concetto di cui ho, ma credo di cui tutti abbiamo bisogno, e non solo in questi giorni.
SALVO CATANIA ZINGALI
La quarantena mi sta dando la possibilità di stare quasi sempre in studio. Pur lavorando tanto, però, in me c’è sempre un lieve senso d’angoscia per questo essere stati privati della nostra libertà e vivere con il “nemico” in agguato fuori dalla porta. È strano perché, in situazioni di normalità, stare in casa a dipingere per lunghi periodi non mi pesa affatto.
Quando dipingo non seguo delle regole specifiche e non ho una predilezione per soggetti su cui lavorare. Attingo da tutto ciò che avviene nel mio vivere quotidiano e cerco di raggiungere il giusto equilibrio fra disegno e colore. Dipingo su supporti vari, a volte su vecchie cassette della frutta riadattate. Adesso a causa dello stato di reclusione di cui siamo succubi, attingo dai ricordi e sto facendo soprattutto ritratti, forse perché mi mancano gli altri. Per il tema proposto, mi fa piacere condividere le mie Sfince, i dolci siciliani dedicati a San Giuseppe, tipici di marzo, preparati in occasione della festa del papà, frittelle ricoperte da una crema di ricotta fresca e cioccolato, granella di pistacchi e frutta candita. Comunicano insieme il senso di nostalgia, di immobilità ma, anche, di solitudine che stiamo vivendo in queste settimane.
ALESSANDRO FINOCCHIARO
La conchiglia della fiera degli animali è un dipinto di quattro anni fa, fine aprile. Ricordo la data perché il 25 di quell’anno nevicò nei monti del reatino e ci fu uno spettacolo della natura inedito per la primavera in Sabina. La conchiglia l’avevo comprata, insieme ad altre tre, in una fiera di animali esotici, organizzata a Fiano Romano dal fratello di un mio amico. La maggior parte degli animali esotici lì era viva, come nei mercati cinesi di cui si parla tanto adesso sui quotidiani. Io comprai, oltre i gusci di conchiglia, un serpente di legno. Non so perché dipinsi proprio questa, forse perché mi ricordava una giornata speciale. L’indomani e nei giorni a seguire tornai un po’ sul dipinto, poi lo esposi in dittico insieme a La neve del venticinque aprile, di formato gemello. Quando dipingo still life è di solito per mancanza di idee, osservo intensamente qualcosa che ho in casa, qualcosa che guardo più di qualcun’altra e finisco per disegnarla o dipingerla. In questi giorni in cui pensare a quello che succede fuori dalla nostra casa è sfiancante, mi è successo con il mio astuccio, i miei pennelli, gli oggetti accanto al letto.
Esercizio con sentimento invece è liberamente ispirato alla poesia di Gesualdo Bufalino, che comincia appunto con questa frase “Per l’alto cielo odoroso d’arance
e di camicie nude al davanzale…”. Ne venne fuori una serie di quadri ispirati alle poesie de L’Amaro miele, le immagini venivano suggerite dalle parole, e forse questa visita nell’immaginario del grande scrittore comisano ha aperto, non sempre senza fatica, come delle finestre, delle possibilità nuove per le mie composizioni.
GIOVANNI BLANCO
Diversi anni fa mi è stato regalato da un amico il cranio di un cavallo, un memento mori, la forma calcificata dell’imponderabile. L’ho accolto come un libro antico, da custodire e comprendere, da verificare ogni volta con i sensi. Alcuni di questi hanno preso forma sulla tela, in quel coagulo di vernici e pigmenti che solo la pittura sa restituire. Nel 2012 ho dipinto la prima versione di questa testa ossea, celando la sua architettura con un panno: l’evocazione di una pelle acconciata che ricopre l’epidermide dava parole a quel mio gesto. La verità che indossa la bugia, o viceversa? Pentimenti e dubbi sono stati il coro di voci che ha scandito i tempi diversi di quest’opera; ma solo recentemente, durante questi giorni di epidemia globale, l’ho riguardata, senza trovare in essa quella necessità e quell’abisso a cui conviene dare ascolto. Ho sovrapposto così sulla composizione un vasetto di fiori, umorale e corsivo, per scandire una distanza, per aprire un varco e bucare le ragioni di questa effimera presenza.
Sono d’accordo con chi sostiene che il fare artistico risponda sempre a un atto critico, nel dialogo con l’altro, col mondo, separato e misterioso, e con se stessi. Il cavallo intero e capovolto, invece, l’ho realizzato per gli spazi dell’Ex Macello di Ispica, i quali mi hanno fatto considerare il punto di vista del corpo ribaltato, la storia perturbante di un massacro. Postura tragica e mitica quella dell’animale appeso, dove a volersi immedesimare si perde ogni certezza prospettica. E non solo. Una sospensione radicale, la morte del respiro, ma non della presenza. Ho dipinto tre grandi monotipi, un cavallo e un toro, due simboli e due costanti in dialogo col territorio, esposti in maniera tale da attivare un’oscillazione di senso. Negli stessi giorni la lettura delle poesie di Ivano Ferrari, raccolte nel libro Macello, ha tessuto un’elegia di visioni struggenti e luminose, portandomi fino alle lacrime.
ROBERTA BALDARO
Sottraggo immagini dal mondo. Certo, sono fotografa, ma il mio è un furto che si sdebita con la matita: è allora che restituisco la refurtiva, un posto nuovo, a conclusione oppure origine del paesaggio. Non ho mai considerato la fotografia come la conclusione. Un paesaggio non è perimetrabile, è un fenomeno che si sottrae a qualunque tentativo di interruzione. La fotografia per me è solo l’inizio, perché il disegno ne dilata lo spazio e trabocca oltre ciò che inquadro. La veduta originale ‒ fotografica ‒ si estende in direzioni inaspettate ‒ disegnate ‒ e non si tratta di ricostruire scenari esclusi, ma di inventare possibili traiettorie: fotografo il paesaggio e disegno ipotesi. È così che nasce Posto nuovo, ampio progetto che comprende diverse serie di fotodisegni. Un lavoro che scaturisce dall’incontro di due luoghi, quello fotografato e quello disegnato, l’esterno e l’interiore. Posto nuovo è quindi un generatore di paesaggi (su carta). E la deriva è una possibilità di viaggio.
Esistono condizioni particolari perché un fenomeno accada, perché un fatto avvenga. Bastano poche accortezze a determinare un ambiente conciliante, favorevole alla ricerca e alla creazione. Immagini, scarabocchi, appunti, feticci d’ogni sorta, cose intorno a me che, senza un’apparente relazione tra loro, disegnano costellazioni significanti e tracciano un territorio di “marcature affettive”, delineano uno spazio che stimola concentrazione e creazione. Circostanze naturali ritrae ambienti privati, oggetti, dentro case vissute da persone dedite allo studio e all’insegnamento, accomunate da spirito filantropico e per le quali l’atto creativo è frutto di costanza e metodologia. La messa in scena dell’immagine, che sia deriva o naufragio, lascia emergere il non fotografabile, lo scarto, l’avanzo, l’abisso. Tra i resti di una cena in famiglia affiora il relitto di uno dei tanti barconi affondati nel Mare Mediterraneo. L’elemento estraneo, l’intruso, serve solo a disturbare per un attimo la quiete del luogo familiare, a insinuare il dubbio che quell’oggetto alieno, perturbante, ci possa trasportare per un attimo in un mondo che a noi ‒ bianchi, europei, borghesi ‒ sembra non appartenere, ma di cui siamo stati e siamo responsabili.
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati