Messaggi artistici dalla quarantena #1. Paesaggio senza figura
Diamo il via a una nuova rubrica, animata dalle voci di artisti contemporanei che si interrogano, nel loro lavoro, su temi e aspetti comuni all’essere umano, resi ancora più evidenti dalla difficile situazione in cui viviamo oggi.
In questi giorni di clausura in cui l’hortus conclusus della nostra casa è l’unico orizzonte possibile, abbiamo pensato a un modo nuovo di raccontare l’oggi attraverso le opere di artisti contemporanei che, in passato o nel presente, si sono dedicati ad alcuni temi esistenziali ricorrenti nella vita di ciascuno. Per scoprire che quelle opere di ieri parlano di noi come siamo oggi e che molte opere di oggi parleranno di noi come saremo domani. Per affidarci al potere visionario e catartico dell’arte anche in questi mesi difficili fatti di assenza, trauma, desiderio dell’altro lontano, riscoperta della nostra zona di conforto ‒ a tratti divenuta sconfortante ‒ e degli oggetti inanimati che ci abitano e che abitiamo, del tempo perduto e ritrovato, del risveglio della natura, del grande bisogno di cambiamento.
Ci siamo ritrovati dentro a città improvvisamente spopolate. Portoni chiusi con noi dietro e finestre spalancate per fare circolare l’aria. La prima puntata di questa rubrica la dedichiamo a ciò che è rimasto fuori, al paesaggio. Molti artisti hanno affrontato questo tema, paesaggi esteriori e paesaggi interiori, ne abbiamo scelti alcuni: Samantha Torrisi, Giuseppe Lana, Pierpaolo Curti, Davide Bramante, Angelo Bellobono, riunendo i loro punti di vista.
SAMANTHA TORRISI
La produttività e creatività per fortuna non mancano, anche se a giorni alterni. Si fa più fatica ma allo stesso tempo mi sento fortunata perché possiedo questo strumento prezioso con il quale dare voce ai pensieri e sentimenti. A metà cielo è un’opera che nasce da una riflessione sull’equilibrio tra uomo e Natura e sulla necessità e urgenza di salvaguardia dell’ambiente, in un momento storico in cui il cambiamento climatico, causato dall’azione umana, sta velocemente cambiando il pianeta, con tutto ciò che questo comporta a livello di danni sull’intero ecosistema. La presenza umana è invisibile e suggerita soltanto da alcuni elementi simbolici inseriti all’interno del paesaggio in una visione ancora poetica, ma che sente l’urgenza, adesso più che mai, di ulteriore approfondimento. WayOut fa parte di un progetto attualmente in via di sviluppo, con il quale torno a indagare quei “non luoghi” che da sempre caratterizzano il mio lavoro. Lo spunto di riflessione nasce dall’osservazione degli spazi vuoti e silenziosi di Gibellina Nuova, interamente ricostruita dopo il terremoto del 1968 nella Valle del Belice in Sicilia. La sensazione che si ha percorrendo le vie deserte di questa città, fatta di piazze spopolate, monumenti ed edifici incompiuti da quarant’anni, è quella di sentirsi quasi degli alieni o dei sopravvissuti, proprio come in questi giorni di isolamento che stiamo vivendo a causa di un’altra tragedia, che però accomuna le città di tutto il mondo. Questo dipinto, iniziato prima che scoppiasse la pandemia e finito nei giorni di quarantena, assume adesso un ulteriore significato, che lo lega maggiormente al periodo che stiamo attraversando. Una sorta di passaggio tra ciò che era prima e la percezione di quello che sarà dopo.
GIUSEPPE LANA
In questi giorni di quarantena, ho rallentato tantissimo, o meglio dire, ho proprio smesso la produzione materiale di opere. Sto approfittando di questo momento per riflettere e approfondire il mio lavoro. Credo sia un buon momento per analizzare meglio la fragilità dei nostri limiti. Il mondo là fuori mi obbliga a ripensare a tematiche di mio interesse come i confini, il dialogo, l’universalità dei doveri e dei diritti sempre più calpestati. In Crossover quattro barriere meccaniche enfatizzano il concetto di spazio, accoglienza e rifiuto. Poste l’una accanto all’altra a formare un quadrato, con le aste abbassate delimitano uno spazio, lo racchiudono. Quando sono alzate permettono il passaggio, eliminando ogni forma di confine. Quando sono chiuse diventano un ring. Per Zweisamkeit, invece, l’analisi riguarda l’automobile come oggetto e simbolo appartenente alla cultura popolare, una combinazione di identità e di progresso tecnologico. Negli ultimi decenni, in Europa, l’economia dell’automobile ha avuto una posizione di privilegio come simbolo di eccellenza della Germania. L’installazione vuole essere uno “spotlight” su un passaggio storico delicato, che cristallizza la condizione da simbolo di potere a rovina.
PIERPAOLO CURTI
Non appare mai la persona nei miei dipinti perché la persona è collocata proprio dove deve stare, fuori dal quadro, anche se interamente coinvolta, in perfetta solitudine, perché è solo con se stessi che si può calibrare il software interiore che ognuno di noi possiede. Ecco che il vuoto diventa ospitale e permette una maggior concentrazione per procedere. Questi passaggi dimensionali, che hanno una finalità metaforica, dovrebbero fungere da stimolo per chi guarda. I miei sono tentativi. Quando riesco a generare questa condizione, sono contento.
Come il colore grigio, che amo molto, fa un passo indietro per permettere agli altri colori di esprimersi, io dispongo un impianto simbolico che possa permettere allo spettatore di fare altrettanto.
DAVIDE BRAMANTE
La foto di NY (la città che sale) l’ho venduta a quella che è la casa di gioielli più famosa al mondo, Tiffany. Mi dissero che sembrava una foto senza tempo e che avrei potuta scattarla nel 1940 o nel 1960 o nel 2020. Perciò te la propongo, perché racconta un tempo senza tempo, una previsione, un salto nel passato e un ritorno al futuro. Nelle mie foto non ci sono quasi mai o in minima parte le persone, solo quando purtroppo si mettono davanti. Fotograficamente non mi interessano. Io sono un architetto della fotografia, sarà il mio cognome o il fatto che ho studiato scenografia, fatto sta che amo le architetture e non i ritratti. Mi piacciono le storie che stanno tra le mura e sulle mura ma non quelle che mi trasmettono gli sguardi, mi piace di più immaginare, sognare, non raccontare. Non fotografo New York, Tokyo, Hong Kong perché ne sono affascinato ma perché è diverso. Ho sempre cercato, registrato, tutto ciò che è diverso da me, dalla mia visione, dalla mia cultura, questo è quello che mi ha sempre incuriosito e messo in piedi e in viaggio. Però per la mia ultima mostra che doveva farsi a Milano, poi saltata a causa del virus, avevo deciso di mostrare ciò che per me è intimo e che non avevo mai volutamente fotografato prima e cioè i miei luoghi, e così è spuntata Noto! Noto come NY, “celestiale” e immaginata.
ANGELO BELLOBONO
Viviamo di conseguenze annunciate, attendendole come ragione a non agire. Forse l’uomo è solo un ordigno innescato che vaga nel paesaggio in costante stato di amnesia. Cerco di non considerare il pianeta un parco giochi funzionale a me stesso ma un sistema complesso in cui coesistere; un corpo di cui sono al tempo stesso cellula, mitocondrio e virus, cura e parassita. Ogni giorno la chimica dell’esistenza modifica coordinate, funzioni e intenzioni. Dalla terra puoi lasciarti travolgere o ascoltarla raccontare, camminandoci sopra senza calpestarla. Nell’era del chiacchiericcio di fondo, la scelta del silenzio della pittura può essere rivolta, rivendicazione di libertà dalla dittatura delle immagini. In quest’epoca di incertezza e paura le verità personali prendono il sopravvento, ognuno diventa popolo, stato, nazione, azienda, partito, sistema. Io cerco dove c’è meno monumentalità, dove sembra non ci sia nulla da vedere e tutto si basa sul sentire, sulla percezione, su un alito di vento sul collo che ti fa chiudere la giacca e non si scrolla di dosso, lo si porta in altri luoghi, in un quadro. Cielo e mare sono la stessa cosa e le montagne sono scogli da cui scrutare il nulla. Un paesaggio non è un’immagine da riprodurre, ma un racconto ignorato, da costruire con incontri ripetuti, attraversamenti, ascolti, appartenenza corporale e presenza. Nel momento in cui lo si attraversa, il paesaggio si disintegra alla vista e si ricompone con i nostri sensi, i nostri passi, il nostro corpo. Immaginazione e ricordo si fondono. Rumore e silenzio, roccia, terra, erba, vento, ghiaccio, cielo, montagne, città, acqua. Strati di mondo uno sull’altro, ognuno punto di partenza ma mai arrivo, eppure sempre ritorno. Un quadro è qualcosa che fino al momento prima di cominciarlo non esiste, un concentrato di atmosfere sospese che aspettano e magari trovano spazio su un supporto, traghettandoti dove non sapevi di andare o di essere stato. Un paesaggio è uno spaesamento.
‒ Mercedes Auteri
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