Ultime notizie: Sergio Risaliti video-racconta la giovane artista Rebecca Moccia

Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze, racconta le ultime produzioni degli artisti in un ciclo di appuntamenti su Artribune. La serie continua con Rebecca Moccia

La quinta Ultima Notizia mi giunge dalla giovanissima Rebecca Moccia. Quando penso a lei e al suo lavoro artistico, mi sorge spontaneo pensare a David contro Golia. Perché è giovane e perché è donna. Il duello con Golia è allora molto più tosto. Pochi altri artisti della sua generazione hanno il coraggio di affrontare la realtà globale, bella e brutta che sia, con la sua coraggiosa generosa caustica determinazione. Rebecca vuole contare molto. Intendo dire che vuole contare artisticamente. Pretende da sé e dagli altri un’arte che stia nel mondo non parzialmente, non marginalmente. Ecco il suo obiettivo. Vivere pienamente e abitare poeticamente il mondo. Fisicamente mi ricorda il David del Verrocchio. Delicato e forte, caparbio e gentile. Non usa la fionda ma l’arma dei linguaggi artistici ed extra artistici: pittura, scultura, installazione, fotografia, video, produce sul web e in contesti non canonici del sistema dell’arte. Segno di una libertà e mobilità che è mentale e fattuale a un tempo. Pochissimi tra gli artisti della sua generazione avvertono la necessità di un’arte sofisticata, che sia in grado però di parlare a tutti secondo l’antica tradizione dell’umanesimo italiano, quello che inizia con Giotto e arriva a Kounellis, per intendersi. Un’arte come linguaggio ed esperienza visiva che non abbia eguali, che possa arrivare a dire e far essere artisticamente tutto, come pensava Boetti, a mostrare e raccontare in un modo unico e diverso, come fa Paolini, un’arte che non ha eguali, che muta e torna sempre a riconoscersi arte, come ci ha insegnato Fabro. Un’arte che regga il confronto con gli altri media: da quelli popolari e quelli più selettivi o elettivi. Senza pensare ad alto e basso, a linguaggi colti e popolari, a nuovi e antichi modelli, a generi e contesti opposti o alternativi, Rebecca si getta generosamente nel mondo della comunicazione e in quello delle belle arti, allarga le braccia e raccoglie sollecitazioni visive diverse, pensieri dalla strada e immagini dai musei, citazioni dai social e dal parnaso letterario, si fa attraversare da emozioni e sensazioni, ritrova fonti e rinnova tradizioni con lucida frenesia, con gioiosa discrezione. Seleziona alla velocità del pensiero fluido, come fanno le nuove generazioni, ma lei lo fa con un senso indubbio delle gerarchie e dei valori. E questo la rende veramente speciale.  

IL CORAGGIO DI REBECCA 

La prima opera di Rebecca in cui mi sono imbattuto tre anni fa, passeggiando tra gli stand di una fiera d’arte, è stata una piccola foto esposta su una parete laterale di uno stand espositivo.  Lo stand era quello della Galleria Mazzoleni di Torino. Dobbiamo dare atto a Davide Mazzoleni di aver avuto un bel coraggio a mettere sullo stesso piano quella piccola foto di Rebecca Moccia con le opere di Savinio e de Chirico, di Burri e Fontana. L’ho incontrata e conosciuta, abbiamo parlato, ci siamo promessi di vederci al Museo Novecento a Firenze, dove poi è nato un importante progetto con lei. Da parte sua e in mezzo a quei giganti non c’era nessun timore reverenziale, solo rispettosa distanza e ammirazione. D’altronde Rebecca-David non teme di affrontare confronti rischiosi, certamen selettivi. È ardimentosa e coraggiosa. All’ombra dei grandi alberi non cresce nulla. Lo sa. La strada è sempre in salita e solitaria. La foto, che mi aveva catturato, o piuttosto fulminato, riproduceva un’azione svolta sul tetto di un capannone industriale in una piazza periferica di Milano. Sul piano di quel tetto l’artista ha scritto una sola parola usando lettere cubitali. Una parola secca e squillante, con due grandi occhi, un cuore in testa, che sprigionava energia, volontà di fare e di superare ogni limite, di assumere il rischio di azioni belle, di azioni importanti, di gesti artistici clamorosi. E quella scritta dimostrava coraggio. Quel coraggio di cui si faceva manifesto. 

 UN INVITO RIVOLTO A CHI?

 “Coraggio”.  Era questa la parola scritta con uno smalto bianco sul colore scuro di quel tetto industriale. La foto di quella scritta mi è entrata in testa e non se ne è andata. Un lancio di fionda per scuotere l’inerzia. Ecco come l’ho interpretata in quel momento, tra gli stand di quella fiera. De Chirico, Savinio, Burri, Fontana hanno capito e applaudito. Una puntata secca sulla ruota della comunicazione. Una sola mossa per bucare lo schermo della disillusione. Era un grido lanciato nell’etere? Uno slogan generazionale? Una chiamata al fronte artistico? Un incitamento? Rivolto chi? A tutti? A se stessa? Richiesta di una maggiore determinazione concettuale, espressiva, formale? Agli artisti italiani? Al mondo?  Giorni fa mi ha scritto: “In quel momento la mia attenzione era rivolta verso sfumature più, se vogliamo personali, invocava una resistenza quotidiana, una celebrazione della giovinezza come fattore dirompente della realtà, una potenzialità da rafforzarsi nella condivisione, che oltrepassasse il singolo”. Il lemma “Coraggio” dipinto su quel tetto era dunque un manifesto generazionale. Una dichiarazione d’intenti e di sentimenti, come tocca fare a un artista che voglia dare il via a un’avanguardia. Con quella parola chiamava a raccolta gli altri. Rebecca ha le idee ben chiare. Sa come posizionare le pratiche e le immagini della giovane ultima avanguardia italiana in un prima e in un poi, riconoscendo la linea di confine e di separazione tra aree temporali e geografiche, tra lo spazio delle emozioni e dei concetti, in un’era fatta di urgenze e di emergenze.  

IL NON FINITO

Apro una parentesi. Le opere che hanno un peso sono aperte e incompiute, cioè si aprono a plurime infinite interpretazioni. Tutto quello che hanno da dire, e che possono dire, lo sanno esprimere e mostrare in una forma compiuta, che è poi sempre forma essenziale. Molte volte sono di forma leggera e trasparente, compatta e indimenticabile. Così quella parola. La senti pesare sulle spalle e scattare leggera davanti a tutti. È chiara, luminosa, anti-retorica, non si nasconde, e vive alla portata di tutti. È spendibile da pochi. Spinge in avanti, in una direzione che è quella di una generazione che vuole cambiare molte cose per il mondo, la terra prima di tutto. Coraggio non ti chiede di guardare indietro, se non per scegliere il meglio.
La foto presa dall’alto rivelava, però, una seconda prova estrema. Oltre al coraggio pretendeva di fare un passo contrario. Mi spiego con le parole di Rebecca. “L’opera è un’esortazione a riflettere sui concetti di coraggio, resistenza, bellezza e arte. Realizzata durante un giorno di pioggia, i contorni della parola immediatamente sbavati dalla caduta delle gocce, rivelano la vulnerabilità che coesiste insieme al coraggio in ogni atto di rivendicazione. La possibilità di una visione esclusivamente aerea porta l’intervento a prendere le sembianze di un messaggio destinato a qualcosa di sovraumano”. Sotto la pioggia si andavano consumando quelle lettere incise nel coraggio. Rebecca aveva messo in conto questa possibilità. Ha inteso mettere a prova la resistenza, per provare la tenuta di quella sua dichiarazione e della sua convinzione. Solo mettendolo alla prova si misura il coraggio artistico. La prova è la misura del coraggio nell’arte. La misura del coraggio è l’opera essenziale, mi sono detto, il gesto sovrumano.

C’è un significato però che non dice la foto.  Le singole lettere venivano bagnate dalle gocce di pioggia che ne ha disciolto i contorni. Come il coraggio che può essere messo alla prova e logorato. Il grido coraggioso si sperdeva nello spazio di un pianto. La forza d’animo si legava indissolubilmente alla consapevolezza della fragilità, della debolezza. Ecco, qui, la somiglianza con il David del Verrocchio. La fragilità dell’opera nella sua sovrumana sfida al nulla. Quella parola così granitica nel suono, piccola traccia fonetica che si espande dal profondo del corpo in un grido, cela una profonda riflessione sulla breve durata di ogni atto di volontà. La consapevolezza della fine del tutto e della pochezza delle azioni umane, avvertita così chiaramente e coraggiosamente in una giovane artista piena di ideali e slancio creativo, è ciò che rende ancora più eroico quel gesto poetico. Il tremore nel nascere stesso della parola coraggio, dell’intenzione stessa di scrivere quella parola su di un tetto, di metterla in mostra a fianco di giganti dell’arte italiana. Un’intenzione destinata a qualcosa di sovrumano. Ecco la misura del suo talento, il senso della grazia, la necessità del disegno che le proietta l’ombra alle spalle. Impossessatasi della semplice parola “coraggio” rubandola al vocabolario umano, da quello letterario, da quello storico e iconografico, autorizzando quel lemma come opera unica, l’ha fatta diventare la sua bandiera, l’imperativo morale che fissa il limite del suo osare. Scritta da un’artista donna, giovane donna di spirito indomito, quella parola ha assunto ben altro significato. Fa appello a una rivoluzione al femminile, è incitamento a prendere in mano il destino, il futuro senza remore e timori reverenziali nei confronti del padre padrone, dell’uomo forte, del maschio dominatore. David contro Golia. Ecco perché riconosco in lei la gentilezza e la forza di spirito di David contro Golia; il coraggio di affrontare disarmata il conflitto generazionale, solo confidando nell’ispirazione e nella visione interiore.    

UN COLPO AL CUORE

Coraggio. Quella foto è stata come un colpo al cuore, un’iniezione di sincera ammirazione. Raramente si ha la certezza della necessità di un’opera. Qui mi fermo. Solo per dire che è come uno stato di grazia. Quella stessa qualità che riconosco in opere di un recente passato dell’arte italiana, opere giovanili e aurorali anche quelle: Disegno geometrico di Giulio Paolini, Tubo da mettere tra i fiori di Luciano Fabro, “l’isola con i cactus” di Jannis Kounellis, il “tubo giallo” di Eliseo Mattiacci, il primo “specchiante” di Michelangelo Pistoletto. Uno due tre. Zac. Bersaglio colpito. Coraggio, lasciato a risplendere sotto il cielo, con la pioggia e il sole, con leggerezza e potenza. Ci ha sfidato, giocando una sola carta, con coraggiosa gentilezza e un po’ di timidezza.
Poi, passa del tempo, e succede qualcosa. Le opere necessarie ritornano a essere ancora più presenti. Scoprono voragini, canalizzazioni segrete, mondi sommersi e soprattutto anticipano il futuro. Le grandi opere non sono di moda. Sono universali, sono in anticipo o postume. Mai di moda. Diffido, infatti, delle opere alla moda. Provate a immaginare l’effetto che mi ha fatto ricevere oggi quella foto di allora. Leggere oggi “coraggio”, in tempi così cupi e pesanti.  Quando in cielo non volano aerei da giorni. Con la foto mi ha inviato un messaggio e un video. L’occhio sale, sale, sale sempre più in alto; l’orizzonte si allarga, la parola scompare nella città, la città nella regione, questa nella visione dall’alto della penisola italiana, poi dell’Europa, infine della Terra. La nostra terra maltrattata. Il video parla da sé. Quella parola datata di tre anni assume oggi un valore universale, parla a tutti, è talismano globale. La sua mail terminava con queste parole: “ Quando ho realizzato  Coraggio, quasi tre anni fa, la mia attenzione era rivolta verso sfumature più, se vogliamo personali, invocava una resistenza quotidiana, una celebrazione della giovinezza come fattore dirompente della realtà, una potenzialità da rafforzarsi nella condivisione, che oltrepassare il singolo. Ovviamente questo lavoro visto dalla prospettiva di questo momento preciso assume numerose differenti connotazioni; il Coraggio che ci viene richiesto è superiore a quello dell’ordinario e per questo mi piaceva contestualizzare l’opera facendola apparire come appartenente non alla piazza dove si trova, ma a Milano, all’Italia, all’Europa, in generale al pianeta”.
Adesso è sera e contemplo quella piccola scritta inviata al mondo per uno sforzo che oggi si è fatto sovrumano. Con il nuovo video, Rebecca chiede un cambiamento vero, profondo. In un tempo come questo, di terrore e di consapevolezza, la sua parola diventa un grido corale. Vuole essere manifesto di una rivoluzione globale. Ci ricorda che, tra tanti malati, la creatura più gravemente ammalata è la terra, nostra madre terra. Coraggio siamo fragili, siamo esposti, siamo disarmati. Dobbiamo però cambiare posizione al centro dell’universo. Non possiamo considerare la vita, il pianeta, ogni essere, perfino l’Essere a nostra immagine e somiglianza. Dobbiamo mettere da parte un dio ingombrante, uno dio che ha le fattezze dell’Uomo. E pensare altro, sentire diversamente. E contemporaneamente agire di conseguenza. Coraggio.    

Sergio Risaliti

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Sergio Risaliti

Sergio Risaliti

Sergio Risaliti (1962), si è laureato a Firenze in Storia dell’arte moderna e contemporanea. Dal 2018 è direttore artistico del Museo Novecento di Firenze. E’ storico e critico d’arte, ideatore e curatore di mostre e di eventi interdisciplinari, scrittore e…

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