Un artista fuori dal coro. Parla Pino Boresta
Non è facile essere artisti, specie se il mondo della critica non riconosce e valorizza il tuo lavoro. Pino Boresta racconta la propria esperienza, tra rifiuti e possibilità.
Spesso ogni volta che leggiamo/studiamo la vita di un artista famoso, quello che cerchiamo di capire sono le ragioni e i fatti che ne hanno determinato il successo. Può capitare, così, di scoprire che questo successo non fosse dovuto alla libertà spirituale che i critici attribuirono a lui e alle sue opere, ma a ben altri motivi e fatti che influirono sulla sua carriera. Non possiamo di certo continuare a limitarci a credere, romanticamente, che la vita di un artista sia il suo lavoro e il suo lavoro la sua vita, e basta. A tutti noi sarà capitato di alternare momenti d’intensa lucidità su sé stessi, e la propria opera, a ripetuti momenti di confusione, tutto questo nella speranza che il prossimo incontro possa cambiare il nostro destino.
Perché, diciamoci la verità, per quanto un artista possa sembrare innovativo, non nasce mai in un vuoto assoluto, esiste sempre un dialogo tra il suo presente e il passato, tra la sua ricerca di nuove forme e le tradizioni già esistenti. Per questo motivo sono pochi gli artisti che hanno la capacità di dire qualcosa di interessante attraverso il loro lavoro. Ma io non credo, come sostiene qualcuno, che gli artisti siano come dei bambini che vogliono semplicemente essere apprezzati, non sono degli adolescenti che, scoprendo che il mondo dei grandi ha altre regole e interessi, si trasformano in inguaribili depressi. Io credo invece che la sensibilità degli artisti sia la cura per questo mondo. Bisogna distinguere chi parla e scrive di arte da chi la fa, anche se oggi più che mai il parlare e lo scambio di idee fa sempre più parte del processo artistico e della sua ragione di esistere. Per questo motivo io ancora una volta non mi sottraggo al raccontarvi la mia esperienza personale nella speranza (ma con buona convinzione) che questa possano rivelarsi utile anche ad altri.
IL RUOLO DELLA CRITICA
“Guarda! Lo vogliano o non lo vogliano, pur essendo artisticamente fuori dal coro, tu ormai sei già nella storia dell’arte. Il ‘Successo’ poi è un’altra questione, e tu questo lo sai bene. Il tuo lavoro ha spesso anticipato quello di molti artisti italiani, e non solo italiani. Artisti che hanno saputo, e potuto investire di più nella promozione del proprio lavoro, spesso aiutati più di quanto tu lo sia mai stato. Al contrario, tu non sei mai stato aiutato, e se a volte ti sei conquistato della visibilità è solo grazie alla forza del tuo lavoro”.
Parola in più parola in meno, questo è quello che in sostanza mi ha detto un importante curatore/critico del nord-est italiano dopo avergli raccontato del profondo sconforto in cui ero caduto a seguito di un breve confronto avuto con un suo importante e famoso collega al quale mi ero rivolto per chiedere alcuni semplici consigli, cosa che aveva già fatto in passato.
Gli ho raccontato, senza rivelargli chi fosse, che ero uscito particolarmente sconcertato da quel breve confronto, perché, senza capirne la ragione, questo critico/curatore/direttore non ha solo tentato di liquidarmi in maniera sgarbata, ma ha voluto annichilirmi esortandomi a smettere di fare l’artista. Ora, io capisco che non tutti possiamo pretendere di diventare artisti famosi, ma consigliarmi addirittura la morte artistica mi è sembra un tantino esagerato. Chi ha un po’ di cuore, in genere, non commette questo genere d’azioni, neanche nei confronti del pittore della domenica con pretese eccessive, e io non credo di appartenere a questa categoria, altrimenti vorrebbe dire che sto vivendo in una sorta di Truman Show senza accorgermene.
LE POSSIBILITÀ DEGLI ARTISTI
Ebbene, questo doppio incontro, prima con il critico cattivo e poi con il critico buono (per rimanere nella metafora dell’artista bambino, che non condivido), se eventualmente ce ne fosse bisogno, ha rafforzato in me l’idea che da solo non ce la farò mai, e se qualcosa succederà sarà solo in virtù di qualcuno che deciderà che io e il mio lavoro siamo degni di essere valorizzati e sostenuti. Per cui spero che questa esperienza possa almeno essermi stata utile per crescere spiritualmente fornendomi la possibilità di cogliere una “bellezza collaterale”, e allora come canta Marco Mengoni: “Grazie per avermi fatto male, non lo dimenticherò”.
Dopo il mio incontro con il critico cattivo, ma forse sarebbe più giusto definire scompostamente cinico, mi sono ricordato di questo appunto che avevo scritto, e che ritengo appropriato per rendervi partecipi del mio stato d’animo dopo quell’incontro.
Dicono loro:
Per noi non vali! (dicono loro).
Per noi sei il nulla! (dicono loro).
Per noi sei niente! (dicono loro).
Per noi non esisti! (dicono loro).
Se noi non lo vorremo non diventerai mai alcunché.
Se noi non lo vorremo non sarai mai nulla.
Se noi non lo vorremo non sarai mai niente.
Se noi non lo vorremo non diventerai mai punto.
Tutto qui.
Letterina da loro:
Caro mio, puoi tentare tutto quello che vuoi, ma se qui, noi, ora non lo vogliamo, tu non sarai mai nessuno, non esisterai e di te nulla resterà. Dal buio sei venuto, nel buio hai lottato, nel buio hai brancolato e mai ne sei uscito, e lì resterai. Anzi, nel buio ancora più buio tornerai senza che nessuno si sia mai accorto di te, anzi senza che nessuno abbia mai sospettato che tu esistessi. E se qualcuno se ne fosse accorto, se qualcuno si fosse accidentalmente accorto di te, noi faremo finta di niente, noi faremo in modo che tutti si dimentichino di te, non li costringeremo, ma sarà facile farti dimenticare! Così che l’oblio tornerà a essere la tua unica condizione possibile. Quando poi morirai e le tenebre ti avvolgeranno, forse potremmo avere pietà di te, ma solo se questo ci converrà, solo se ciò potrà ingrassare il nostro ego e il nostro portafoglio. Ma tu non ti crucciar, perché questo è il tuo destino, è stato così per altri prima di te, e sarà così per te. Questa è la nostra missione, questa è la nostra legge dalla quale non si sfugge. Noi questo mondo lo conosciamo e tu al tuo destino ti devi arrendere, al tuo destino devi soccombere, tu come tutti gli altri con la tua/vostra vocazione al martirio. Noi queste cose le fiutiamo da lontano, noi queste cose le conosciamo bene, noi queste cose l’intendiamo meglio di chiunque altro, noi queste cose le abbiamo studiate, noi queste cose le abbiamo valutate, ponderate, approfondite. Per cui non hai scampo, non darti pena, mettiti l’anima in pace, stai sereno, stai senza pensiero. Fai pure quel che vuoi, fai pure quel che credi, fai pure quel che ritieni più giusto, per noi non ha nessuna importanza. Fai quel che devi: opera, crea, origina, produci, forgia, scrivi, protesta e lamentati, è nel tuo diritto, ma di tutto il resto non ti devi preoccupare, ci pensiamo noi, ci siamo qua noi, siamo qui apposta, è questo il nostro compito, siamo stati eletti per questo, siamo nati per questo, e se vorremo, un giorno, forse, faremo quello che tu speravi, ma per il momento non contarci, non sperarlo, non pensarci nemmeno, perché se quel giorno verrà avremo la premura che tu non ne possa mai godere, avremo l’accortezza che tu non ne possa mai gioire, è la storia che vuole così, ed è così che è stato molte altre volte.
Perché?
Perché siamo fatti così, ci piacciamo così, ci sentiamo più importanti così, godiamo di più così, ma soprattutto guadagniamo di più così. Non siamo dei sadici, è solo uno sporco lavoro, uno sporco mestiere che qualcuno deve pur fare. Noi non sappiamo se a Dio piaccia il suo lavoro, ma a noi il nostro piace. Per cui riposati, ma non in pace, per quello hai ancora tempo, riposati, rilassati, fai quel devi come già ti abbiamo detto, al resto penseremo noi a tempo debito, forse, se ci va e se ci farà comodo.
Nell’estate del 2016, mentre ero in vacanza, ho scritto di getto questa “Letterina da loro” subito dopo aver letto le prime 50 pagine del bel libro di Tiziano Scarpa Il brevetto del geco, e chissà? Ho pensato che se per scriverla avessi aspettato di leggere tutto il libro, forse non l’avrei mai fatto, o avrei scritto cose diverse. Per questo mi piace concludere con un pertinente passo del libro di Tiziano:
“Anche quando tutte le tue disgrazie fossero tolte e sciolte tutte le difficoltà e i problemi ad esse inerenti, ti resta l’altra disgrazia ineliminabile, l’altra difficoltà insolubile, la morte. Questa è la disgrazia totale e finale, a cui, anche risolte e tolte tutte le altre, dai cozzo in modo irreparabile. Perché angustiarti di quelle e cercar di levartele da dosso? Che cosa, riuscendovi, avresti ottenuto, poiché ti rimane questa? Se riuscissi a liberarti da quelle, non otterresti che di far giganteggiare questa. La presenza di quelle ti serve perché getta su questa un velo”.
‒ Pino Boresta
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