Messaggi dalla quarantena #6. La casa, gli interni, la comfort zone
Francesco Cuttitta, Giovanna Brogna Sonnino, Calusca, Guido Bagini, Maria Domenica Rapicavoli riflettono sull’idea di casa, centrale e cruciale durante il lungo lockdown che abbiamo vissuto.
Restiamo a casa. Rifugio e prigione. Distanziati socialmente per prevenire il contagio. Vengono da noi la scuola, il museo, il teatro. Entrano attraverso i nostri dispositivi, dietro al filtro luminoso dei nostri schermi. Una vita fatta di barriere reali e virtuali. Un limbo, per anestetizzare il trauma, che non può durare per sempre. Prima o poi dovremo affrontarlo: e uscire da casa. Perché l’educazione emozionale di ciascuno è basata sulla relazione e le relazioni sono basate sul contatto, attraverso i sensi. Jerry Saltz sul New York Times ha raccontato che, durante il lavoro al tribunale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia, Antonio Cassese ogni tanto usciva per andare a contemplare due opere d’arte: la Ragazza con l’orecchino di perla e la Veduta di Delft di Vermeer, “per lenire il dolore”, per riceverne “un equilibrio, una pace, una serenità” che le rendeva “un balsamo per la psiche”. Forse presto potremo farlo pure noi. Uscire e guardarci da un metro di distanza, come si fa coi capolavori di un museo. L’arte ci ha sempre salvato dalla brutalità del mondo e sempre lo farà. Oggi dialoghiamo con Francesco Cuttitta, Giovanna Brogna Sonnino, Calusca, Guido Bagini, Maria Domenica Rapicavoli.
‒ Mercedes Auteri
LE PUNTATE PRECEDENTI
Messaggi artistici dalla quarantena #1. Paesaggio senza figura
Messaggi artistici dalla quarantena #2. Il trauma, il lutto, il dolore
Messaggi dalla quarantena #3. Oggetti inanimati e natura morta
Messaggi dalla quarantena #4. Noi e gli altri, il desiderio dell’altro lontano, la nostalgia
Messaggi dalla quarantena # 5. Il cambiamento, lo spirituale, il mondo che verrà
FRANCESCO CUTTITTA
Una volta mentre mi trovavo in uno dei miei luoghi preferiti, un mercatino nella zona di Ballarò, dove si può trovare veramente di tutto, e che durante la quarantena è stato uno dei luoghi che più mi sono mancati, comprai una piccola scultura in ceramica di un water con la scritta: “Qui seduto dimentico gli affanni”. Questa è proprio la mia personale idea di ciò che un bagno è. È uno dei luoghi più intimi che esistano e che universalmente ci accomuna. Soprattutto in questo periodo in cui siamo stati costretti a convivere con altri senza poter uscire a prenderci delle pause da loro, mi sembra il piccolo rifugio personale, il bunker nascosto dove nessuno può accedere. Sempre sul tema della casa, stavolta del balcone, ti mando anche un autoritratto dal carattere orientale, come si può notare dalla maggior parte degli oggetti rappresentati. Mi guardo allo specchio e cerco di conoscermi meglio in questo momento di solitudine in cui siamo costretti a fare i conti con noi stessi, con la nostra persona e le sue diverse “personificazioni”. Qui sono riuscito a rappresentare me stesso ben dieci volte, così, in questo momento, mi faccio molta compagnia.
GIOVANNA BROGNA SONNINO
Sono sempre stata molto a casa quindi la quarantena da questo punto di vista lìho sofferta meno. Soffro invece perché la situazione in cui ci troviamo, incredibile e terribile, mi ha spinta a uscire per cercare di capire cosa stesse succedendo. Le notizie arrivano virtualmente ma colpiscono realmente. La cosa più tremenda delle cose tremende è che poi te le dimentichi. Spero che attraversare questo tunnel, invece, serva a tutti noi per essere più coscienti e smetterla con questa coazione a ripetere sempre gli stessi errori/orrori. La casa per me è rifugio e conforto. In entrambe le foto che ti invio si raccontano case. Nella prima in bianco e nero, Tra due muri, ero sull’isola di Favignana e si vede come a volte, in certe circostanze o in certi luoghi, anche uno spazio angusto può diventare casa. Nell’altra, Zanzariera di Via Plebiscito 172, ho ricreato una casa nella casa. Spazi piccoli e protettivi.
CALUSCA
Nell’opera V112 ‒ Apocalypse in bed/box room with sacred curtain in fly ciò che si percepisce (o che vorrei si percepisse) e che il titolo suggerisce è la presenza di un vento, soffio vitale (dell’artista?) che in questo ambiente lacerato e sfrondato (inesistente) accoglie ‒concettualmente ‒ il ‘caos’ della vita. L’esserci in quanto a solo proficuo è ciò che, in confessione, mostro attraverso una personale apocalisse quotidiana dove il giaciglio/teca “non offre riposo” bensì slancio verso nuove finestre iconografiche e/o esistenziali. La consapevolezza del potere inclusivo di un interno, del ruolo delle pareti e delle relative aperture che lo costituiscono e caratterizzano come quinta, unico elemento scenico delle nostre intime dimore, mi porta oggi a leggere questa mia opera con lo stesso senso e con la stessa intensità emotiva che l’hanno suggerita e poi prodotta, ma con un’enfasi nuova che me ne conferma ancora, ampliandolo, il contenuto iconografico. La seconda opera, la sedia, invece nasce come analisi formale dell’estate. Riflessione sul senso di appartenenza al sole e al suo donarci colore attraverso distese orizzontali di carne: rosolatura in orizzonte color carbone dal valore nostalgico di un tempo di relax che oggi si tramuta nella paura di una ormai prossima estate bruciata dall’angoscia, vista muro in assenza di mare.
GUIDO BAGINI
I miei spazi raccontano di architettura, design e paesaggi culturali eludendo le regole della prospettiva ortogonale e della gravità: gli oggetti, per lo più frammenti di mobili e architettura modernisti, fluttuano liberamente in composizioni astratte, creando un insolito senso di profondità. Ciò è sottolineato dall’ampio uso di smalti lucidi su sfondi opachi color cartone. Sono frutto di una costante sperimentazione con materiali nuovi, le sculture multicolori sono realizzate in corian e pensate per essere toccate. Sia i dipinti che le sculture, insieme, formano un viaggio misterioso attraverso mondi futuristici che sfidano ogni classificazione cronologica, riferimenti a una civiltà perduta o futura. Viaggi nello spazio che cominciano dallo spazio ristretto di una casa. L’isolamento l’ho sempre vissuto come necessità periodica, un indispensabile periodo di riflessione. Una ricarica che ciclicamente mi aiuta a rinnovare lo spirito e chiarire il pensiero, per cui non ho sofferto affatto la clausura; anzi, ne ho goduto. In alcuni casi l’abitudine aiuta. Divido le giornate alternando piacevoli letture alla meditazione; lo studio di nuovi lavori a un ozio calibrato. Non avendo lo studio così vicino all’abitazione, la mancanza di materiali spinge a considerare alternative, ampliando così possibili nuovi scenari. Il silenzio, l’assenza di presenze hanno sempre caratterizzato i miei lavori che, sempre più, volgono all’astrazione. I ritmi lenti confanno al mio agire e, in fondo, questa situazione surreale mi conforta e per assurdo mi rassicura. La mia speranza è che questo periodo risulti prezioso e fonte di rinnovata consapevolezza.
MARIA DOMENICA RAPICAVOLI
In un mio vecchio video, My Ideal House, ho ricreato scene domestiche all’interno di spazi perfettamente arredati in un contesto confortevole e in linea con le tendenze del design d’interni. Solo nella seconda parte del video si scopre che in realtà non si tratta di un vero ambiente domestico ma di spazi espositivi di alcuni negozi di arredamento. Attraverso un’inquadratura più ampia appaiono infatti i clienti del negozio e le finestre altro non sono che le vetrine dei negozi dove mi espongo con azioni intime quali la pedicure o ginnastica in camera da letto. Nel proporre un ambiente “ideale”, mostro oggetti e mobili, camere eleganti dove faccio finta di muovermi a mio agio. Tutto è scelto nei dettagli, anche se molto di quello che mi circonda rivela un contesto abbastanza impersonale, che non mostra mai una domesticità realmente vissuta ma finge una comodità artefatta che ci svela la finzione, consumistica, di cui ci circondiamo.
Come seconda opera, ho scelto di mostrare in anteprima una immagine di The Other: A Familiar Story, anche se ancora in fase di produzione perché prettamente attinente con il momento che stiamo vivendo. Il progetto è realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council [Edizione 6, 2019, N.d.R.] e sarà presentato sotto forma di video installazione su due canali. Il lavoro prende spunto dalla storia vera di una donna siciliana che agli inizi del Novecento ha dovuto seguire il marito negli Stati Uniti. Racchiude insieme la memoria storica dell’emigrazione italiana e quella personale soggetta alla struttura patriarcale del tempo. Il viaggio mentale e fisico della donna, la sua quotidianità, fatta non solo di lavoro in fabbrica, ma anche di un ambiente familiare scomodo, angusto, di silenzi e abusi che lo rendono una prigione. La ragazza vivrà in prima persona lo sciopero Bread and Roses [slogan che ha origine da una frase di un discorso della leader femminista Rose Schneiderman, per indicare il diritto al lavoro delle donne come strumento per raggiungere obiettivi e condizioni di vita superiori rispetto alla pura e semplice sussistenza, N.d.R.] del 1912 e gli anni della grande influenza spagnola del 1918-20, che resero la sua domesticità decisamente più dura e rischiosa.
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