Ripartire dalla critica: arte, dissenso, ribellione e cambiamento
Al termine del lockdown, ci si deve chiedere se il desiderio di cambiamento espresso finora va oltre il buonismo social e quale ruolo può svolgere, in questa direzione, la più giovane generazione di artworker.
Parlando con la direttrice di una rivista di settore, tempo fa si è affrontato il tema del confronto intergenerazionale: cosa ne pensasse della nostra generazione di giovani critici e curatori, ma anche come si mostra, in confronto al passato, lo spirito dei giovani di fronte a questi tempi difficili. Il riassunto dell’ultima conversazione fu che l’aggettivo con cui meglio definirebbe la nostra generazione è, tra tutti, il termine di ossequiosa. In confronto alla generazione degli Anni Sessanta, o dei ribelli Ottanta, la nostra si mostra come una generazione più deferente, fatalmente arrendevole, che raramente desidera intraprendere la strada del dissenso, a costo di rimetterci qualche cosa, piuttosto che la strada più prudente e conformista.
Parlare oggi di dissenso e di ribellione sembra tuttavia anacronistico; aspettarsi un desiderio di lotta sessantottino, o un anarchismo o insurrezionalismo punk, è poco plausibile. La fine della storia dell’arte di Hans Belting coincide grossomodo con la fine di un confronto ideologico e di una macrodialettica popolo-potere. L’avvento di un capitalismo globale, e infine digitale, ha gradualmente trasformato il piccolo ambito dell’arte, laddove esiste un diffuso sistema culturale, in un settore professionale ed economico allargato equiparabile ad altri. Oggi fare l’artista o lavorare nel mondo dell’arte significa costruirsi una carriera, scegliere una professione in un settore altamente professionalizzato.
Come si esprime dunque l’eredità delle militanze degli Anni Settanta, nel momento in cui non ci sono più “forme di vita dove la militanza fa tutt’uno” (G. Amendola in Alfabeta materiali: il 68 Sociale, Politico, Culturale, a cura di N. Balestrini, F. Bifo Berardi, S. Bianchi, Alfabeta Edizioni e DeriveApprodi, Roma 2018) e la parola stessa di militanza sembra aver perso di significato? L’espressione di istanze politico-sociali ha cambiato natura, ha cambiato lessico. Il vocabolario tecnico si è arricchito di nuove espressioni e lo scenario della rivendicazione si è spostato dalla strada alle pubblicazioni, alle mostre, al display. Allora forse è giusto domandarsi: manifesta questo terreno lo stesso desiderio di rivendicazione, la stessa tensione sociale degli ultimi decenni del secolo scorso? Se essere è sempre essere in conflitto con le generazioni precedenti, come vuole la filosofia della storia più romantica, come ci distingueremmo oggi?
CAMBIARE E NON TORNARE ALLA NORMALITÀ
Nelle ultime settimane si è spesa una gran quantità di parole su come usciremo da questa crisi. Quasi chiunque si sia espresso pubblicamente, tramite blog, live o pubblicazioni, sembra aver manifestato un sincero desiderio di cambiamento. Per quanto si desideri tornare alla vita di tutti i giorni, “non tornare alla normalità” è diventato il mantra filosofico esistenziale di buona parte del web. Che si parli di meccanismi produttivi, di vivere collettivo o del piccolo ruolo che l’arte contemporanea vi ricopre, immaginare un cambiamento nella normalità di questo sistema significa immaginare una forza contraria alla sua inerzia. La crisi, come molte emergenze, dà l’impressione di vivere un processo sociale trasformativo, in cui il cambiamento è una necessità e non solo una variabile. Se adattarsi e cambiare sarà in qualche modo inevitabile, è tuttavia ragionevole aspettarsi che infine tutto cambi affinché nulla cambi, come scriveva Tomasi de Lampedusa, piuttosto che condurci verso un’inaspettata svolta. Ogni reale cambiamento è un movimento controcorrente. Nessuna riforma è mai un processo pacifico, lo stiamo vivendo anche in questi giorni. Rivendicare la necessità di un cambiamento significa aprire un’area di conflitto, disturbare un equilibrio ed essere disposti a fare scelte poco convenienti.
In filosofia lo spirito culturale che informa una determinata epoca è definito zeitgeist, termine poi usato anche in altri ambiti. Si potrebbe inventare un’altra parola composta, lo zeithaltung, per definire l’atteggiamento di fronte al proprio tempo. L’attitudine ad accogliere il cambiamento, o a preferire l’inerzia. Suona forse meno bene, ma credo raccolga perfettamente il senso di questo articolo. Nell’arte ci sono stati periodi di grande interventismo, basti pensare all’Internazionale Situazionista o all’Istitutional Critique, presenti negli stessi anni, alternati a periodi di maggior chiusura, soggettivismo e autoreferenzialità. Nelle dinamiche di governo lo zeithaltung è spesso dichiarato programmaticamente: nel termine di progressismo, quando c’è una predisposizione al cambiamento, o piuttosto nel conservatorismo, in difesa dei valori di una certa tradizione. La questione si potrebbe aprire anche a proposito delle scelte fatte nei dizionari, all’interno delle redazioni, e in molti altri più o meno insospettabili contesti.
La figura del curatore è in questo senso oggi ambigua, a metà strada tra l’indipendenza di un libero pensatore e la tutela gli interessi che si trova a mediare in funzione della sua ragion d’essere. È un ruolo che crea valore, crea relazioni e dipende da esse. Anche se il curatore porta avanti un discorso sociale e politico, immaginarlo come una figura conflittuale, all’interno del mondo dell’arte, è di rado appropriato. A sollevare dubbi e questioni particolarmente scomode è normalmente la critica d’arte, in ragione della sua presunta indipendenza. È tuttavia proprio questa effettiva condizione di indipendenza a sollevare oggi dubbi e perplessità.
UNA CRITICA CHE NON DISSENTE
Qualche giorno fa Antonio Grulli si è espresso a proposito del timore di derive totalitarie insite nell’attuale stato di eccezione. Credo bisognerebbe parlare anche di un altro stato di eccezione, che da tempo produce una palpabile censura: quello dell’insieme di regole non scritte che condizionano il mondo della critica. Non essendo un’attività remunerativa, la stesura di saggi e recensioni si affianca spesso ad altre attività lavorative svolte nel medesimo ambito. Nel momento in cui esprimere un giudizio negativo, ma anche un’opinione quanto più possibile oggettiva, può generare inimicizie, ciò potrebbe risultare – lo sappiamo bene – estremamente sconveniente. Il critico si trova infine a dover scegliere tra la propria obiettività e lo sviluppo della propria rete di relazioni: in altre parole, della propria carriera. Ne risulta che una mostra, per quanto discutibile, soprattutto in Italia, non incontra quasi mai un giudizio che ne metta in evidenza le criticità. Questo naturalmente soffoca il confronto e incentiva un certo grado di conformismo.
Una censura tacita non infligge meno danni di una versione di regime. Al contrario, una censura ufficiale implica spesso la nascita di subculture e contromovimenti che alimentano lo spirito dell’opposizione e mantengono vivo il dissenso. In questo contesto non può che nascere, invece, una critica ontologicamente conservativa, incapace di prendere posizione e tanto meno di portare avanti una causa. La generazione di giovani critici non fa, in questo, distinzione. Qual è il senso di desiderare un cambiamento se non si ha nemmeno il coraggio, oggi, di esprimere il dissenso? Recuperare il valore sociale della critica dovrebbe essere il primo passo per riflettere sulla capacità dell’arte di interrogarsi su se stessa e su quello che stiamo vivendo. Come può un sistema dell’arte che manca di trasparenza e obiettività rappresentare, in questo periodo, uno strumento di autocoscienza collettivo?
‒ Edoardo De Cobelli
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