Apre in Puglia cijaru, un nuovo progetto d’arte socially engaged. L’intervista ai fondatori
Il 26 giugno, con una mostra dell’artista catanese residente a New York, Maria D. Rapicavoli apre a Otranto cijaru, da una idea di Francesco Scasciamacchia e Davide De Notarpietro. L’intervista
Eredità agricola, vocazione al territorio, connessioni internazionali: così si presenta alla sua prima cijaru, nuovo progetto in Puglia, che grazie al Comune di Otranto inaugurerà la sua prima mostra nella “Torre Matta”, uno dei monumenti più iconici della bella città salentina. A raccontarlo ad Artribunei due fondatori Francesco Scasciamacchia e Davide De Notarpietro, i quali, oltre a rivelarne le intenzioni, anticipano i contenuti della personale dell’artista Maria D. Rapicavoli…
Il 26 giugno apre al pubblico cijaru, un nuovo spazio. Che cosa significa questo nome?
Il termine “cijaru” è un termine ormai in disuso che viene dal dialetto salentino e utilizzato per indicare l’aia circostante l’albero di ulivo. In quest’aia cadono le olive pronte per essere raccolte. Come spesso accade nella nostra lingua, densa di stratificazioni di significato, “cijaru” dal latino cilĭum sta ad indicare le ciglia dell’occhio e per estensione il “bordo, l’orlo”. L’idea del nome nasce nel nostro contesto familiare che ha una storia contadina significativa nel territorio e in particolare nella raccolta di olive e altri vegetali locali. L’indagine del termine ci ha fatto scoprire non solo un identificativo ma anche una visione molto vicina a quella degli studi culturali britannici, la cosiddetta scuola di Birmingham, in cui la cultura è vista in senso antropologico e non come mero esercizio culturale per il quale si necessita una formazione accademica. Quindi cijaru per noi è diventato uno statement semantico per recuperare la progressiva scomparsa di una certa forma di cultura “non alta” per poi reinterpretarla ‘creativamente’ attraverso l’arte contemporanea usata come dispositivo di cultura visuale. Inoltre abbiamo pensato a “cijaru” in senso ampio come bordo, limite e in questo senso come confine. Da qui siamo partiti per includere concettualmente e operativamente l’idea di collocare la Puglia in una mappa storica e immaginativa per un ampio concetto geopolitico di Mediterraneo.
Perché proprio a Otranto?
Otranto è stata una scelta puramente accidentale perché Davide e io (Francesco Scasciamacchia, ndr) siamo tornati per un periodo nel nostro luogo di origine e ci siamo rincontrati. Prima come amici, davanti a un bicchiere di rosso, ci siamo confrontati sull’idea di uno stile di vita differente rispetto alle nostre esperienze passate in città o meglio metropoli globali, e così informalmente l’uno persuadeva l’altro sulla bontà di un possibile ritorno in Puglia. Da qui abbiamo cominciato a fare ricerca sui nostri luoghi Davide come storico dell’arte e io, invece come appassionato di studi critici, culturali e di visual culture.
Con quali intenzioni?
Le intenzioni sono di coniugare attraverso un progetto a largo respiro che si prenda cura del territorio con progetti site-specificdi arte contemporanea e storia, tradizioni, usi e costumi della Puglia. Quest’ultima intesa come tassello di una mappa immaginativa più vasta che si spinge fino ad Oriente includendo anche l’Africa e il Medio-Oriente da una prospettiva post-coloniale. cijaru sta già lavorando da circa un anno e mezzo, contemporaneamente alla mostra, anche a progetti di urban redevelopment nell’entroterra salentino in collaborazione con il collettivo a.titolo che ha sviluppato negli anni esperienze e know-how rispetto alla committenza, concettualizzazione e produzione di arte pubblica nel contesto nazionale. L’idea per il futuro, dopo la nostra maggiore integrazione nel contesto sociale pugliese, è quella di produrre un progetto disocially-engaged arte fungere da connettore delle energie già impegnate nel sociale sul territorio.
Come?
Per qualsiasi progetto ci venga commissionato o che realizzeremo vogliamo sempre utilizzare il modello del “travelling workshop”, ossia invitare l’artista a viaggiare con noi in Puglia per scoprirne la storia. cijaru donerà all’artista invitato una ricerca storica e culturale sul sito e/o sul tema dell’intervento e l’artista concettualizzerà un progetto nato durante la sua esplorazione sul territorio.
Lo spazio avrà una vocazione estiva o vivrà tutto l’anno?
In realtà cijaru non ha uno spazio né espositivo né un ufficio proprio. Abbiamo usufruito grazie alla solidarietà locale della postazione della Pro Loco di Otranto di uno spazio dove fare ricerca e progettazione.
cijaru non ha nessuna intenzione di essere un progetto stagionale che si rivolge esclusivamente ai flussi turistici che caratterizzano l’estate in Puglia ma anzi si propone di costruire relazioni nel contesto locale in modo partecipativo e inclusivo. Vogliamo proporre a chi viene in visita il frutto di un lavoro collettivo sul territorio e il ribaltamento di prospettiva rispetto al modello turistico di mostre ‘blockbuster’.
Francesco, hai lavorato a New York, in Messico, a Londra, poi al Mart, Flash Art però il tuo progetto con Davide lo hai fondato nella “tua” Puglia. Perché?
Mi sono ritrovato in Messico ad un certo punto, prima al Museo Jumex e poi come assistant professor presso la Universidad de Las Americas a Puebla, città a due ore da Città del Messico. Viaggiavo ogni fine settimana da Puebla a Città del Messico e di solito, come si può immaginare, le due ore diventavano almeno di quattro fra autobus e mezzi locali. Facevo questo sforzo perché volevo partecipare alla vita culturale cittadina, sempre effervescente. I carichi di lavoro erano davvero tanti e alla fine ho deciso di prendermi una pausa e di tornare in Puglia per capire il prossimo passo, convinto che avrei aperto una rivista teorica di arte e visual culture di ritorno in Messico per raccontare in modo profondo un contesto culturale e sociale molto complicato ma allo stesso tempo ricco di storia e suggestioni. Poi, invece, il resto della storia credo ormai sia noto.
Cosa significa aprire un nuovo spazio in epoca post Covid-19?
Credo che la pandemia abbia reso maggiormente visibili tutte quelle “strutture di supporto” (qui cito Shannon Jackson nel suo libro: “Social Works”, 2011) che un tempo erano considerate fondamenti di uno stato sociale e che progressivamente sono state “smantellate” completamente a livello globale. In un certo senso è come se fosse “esploso” un sistema inumano e insostenibile. In questa prospettiva siamo diventati maggiormente coscienti di quello che si è andato sgretolando, privatizzando e mercificando in modo violento. In un certo senso produrre, creare e progettare arte adesso, come si dice ormai ovunque “ai tempi del covid”, deve significare parlare di welfare, di sostegno alla produzione e alla ricerca artistica e di una “estetica di supporto” che sveli le interconnessioni fra sistemi e il lavoro di riproduzione sociale che si nascondono, di solito dietro le quinte, del “palcoscenico dell’arte”.
Quali energie e preoccupazioni avete attinto dai mesi di totale chiusura?
Durante i mesi chiusi in casa, anche cijaru ha dovuto necessariamente rinunciare al contatto umano che ci caratterizza. Sia Davide che io abbiamo considerato questo un momento per riflettere maggiormente sul nostro ruolo, sulle nostre fragilità e sulle nostre incertezze. Abbiamo come molti per un momento pensato di abbandonare ancora una volta quello che pensiamo essere il nostro progetto di vita. Sicuramente c’è un dato di fatto da tenere presente il web ha accelerato la sua corsa diventando imprescindibile per ogni tipo di linguaggio. Quindi si è creato un paradosso: se da un lato le nostre vite sono diventate maggiormente globali dall’altro, non potendoci spostare, tutto è diventato allo stesso tempo più locale.
Il progetto inaugurale è di Maria Domenica Rapicavoli. Ce lo raccontate?
Il progetto di Maria è un lavoro di ricerca, un percorso storico e immaginario di una Otranto transfrontaliera che attraverso le tracce della nostra cultura materiale disegna una “mappa visuale” contemporanea delle rotte marine che attraversano il Canale d’Otranto. Il progetto, anche se concettualizzato dall’artista ‘pre-Covid’ circa otto mesi fa, pensiamo sia calzante rispetto ai tempi che viviamo; ha un’estetica sospesa, fragile e intimista. I materiali sono quelli del Salento e di Otranto: terra di bauxite, pietra leccese, terracotta, cartapesta. Si tratta di una immersione esperienziale, quasi subacquea, che “abbraccia” lo spazio della Torre, i visitatori e in senso ampio chiunque ‘voglia fare di questa terra una casa’.
–Santa Nastro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati