Messaggi dalla quarantena # 8. Il tempo perduto, il tempo ritrovato
Ottavo capitolo dedicato alla riflessione degli artisti contemporanei sull’esperienza della quarantena. Stavolta a essere evocato è il tema del tempo.
Il ritmo forsennato di prima, l’eccesso di cui c’eravamo circondati, gli orologi che scandivano le nostre giornate: abbiamo dovuto abbandonarli in favore di un tempo nuovo. Chi ha accanto dei bambini si strugge per quanto il loro presente sia così distante dall’infanzia che avevamo immaginato per loro. Eppure, dai bambini impariamo il qui e ora imponendoci costanti esercizi di pazienza e guardando con stupore ogni cosa.
La visione iconica di una Milano con un nuovo padrone in cima al grattacielo più alto d’Italia, di Agnese Guido; le ombre sulle persiane di Simone Di Franco; il vello d’oro sulle ferite di Francesca Polizzi; il picchiettio continuo e ritmato sulle superfici di Enrico Salemi; le case di notte di Turiana Ferrara e la poesia di Sofía Rodríguez ci svelano forse qualche segreto di questo tempo misterioso.
‒ Mercedes Auteri
LE PUNTATE PRECEDENTI
Messaggi artistici dalla quarantena #1. Paesaggio senza figura
Messaggi artistici dalla quarantena #2. Il trauma, il lutto, il dolore
Messaggi dalla quarantena #3. Oggetti inanimati e natura morta
Messaggi dalla quarantena #4. Noi e gli altri, il desiderio dell’altro lontano, la nostalgia
Messaggi dalla quarantena # 5. Il cambiamento, lo spirituale, il mondo che verrà
Messaggi dalla quarantena #6. La casa, gli interni, la comfort zone
Messaggi dalla quarantena #7. Il risveglio della natura
AGNESE GUIDO
Penso spesso a quanto sia irreale e allo stesso tempo tangibile, drammatica e condizionante questa situazione, il dover abituarsi a non poter uscire e a non volerlo fare, per proteggersi. Inevitabilmente la realtà attuale è entrata dentro il lavoro, Da Milano, per oggi, è tutto, così come tutte le altre opere ancora in progress, si è contaminata con ciò che stiamo vivendo. Dall’alto del mio balcone si vede la città e posso immortalare scorci lontani e grattaceli. È nato così questo dipinto, almeno l’occhio e la fantasia possono viaggiare. Con umorismo o dissacrazione cerco di affrontare le cose, sciogliere problemi, andare avanti. Penso spesso a questa attesa che stiamo vivendo, questa sospensione, questa grande chiusura per ferie, questo agosto senza mare. Aspettare senza sapere fino a quando, e lo scandire del tempo e dei giorni alterato dalla cattività. In questi giorni mi è pure tornata in mente una mia opera, Sogni cinesi infranti, che risale a poco più di un anno fa. L’ho dipinta mentre ascoltavo una musicassetta cinese regalatami dal mio compagno. Come spesso succede creo storie partendo da un oggetto, che si trasforma poi nel soggetto di un sentimento umano. Così questa musicassetta canta di una perdita e della nostalgia, come la melodia malinconica di quelle canzoni asiatiche che si sentono nei ristoranti cinesi (che mi mancano tanto).
SIMONE DI FRANCO
In questi giorni di quarantena, dopo aver osservato ogni angolo cieco dell’appartamento, dopo aver immaginato alla finestra un orizzonte luminoso diverso da quello del petrolchimico di Sannazzaro de’ Burgondi, dopo aver strapazzato il pianoforte, le pagine di qualche romanzo, una fotocamera senza pellicola, ecco che, come un minotauro, affronto i miei raccoglitori: accetto di rivedermi un po’ dentro allo specchio dei miei negativi.
Ho tanta voglia di fare nuove foto, ma non posso uscire. Mi dedico alla stampa, allora: trasformo la cucina, il bagno, la stanza da letto, tutta la casa insomma, in un’unica camera oscura. Estraggo dai pergamini qualche fotogramma. Esaminando il film, rivivo i momenti di ogni scatto, l’eccitazione della caccia, la gioia dell’occasione colta al volo, la delusione per quelle perdute. L’anello di un raccoglitore si allenta. Lascia scivolare una serie di fogli con alcuni 6×6, in castigo in fondo alla risma. Mi si ripresentano allora due giornate di luce abbacinante, capitate in due anni diversi, ma curiosamente nello stesso mese di febbraio ‒almeno così credo di ricordare. La prima foto, la più recente, è stata fatta un mercoledì pomeriggio. Frugavo la campagna del Basso Monferrato, senza trovare nulla che assomigliasse a ciò che avevo in testa. Perché se è vero che il fotografo può raccogliere dalla realtà solo ciò che la realtà offre al suo occhio, può avvenire anche che il fotogramma, disegnato dalla luce, diventi un piccolo schermo catottrico: come se lo sguardo potesse vedere se stesso sulla superficie del mondo. Che cosa cercavo, quel giorno? Un’allegoria del desiderio frustrato di condivisione, il magone della solitudine. E l’ho trovata, infine, davanti alla facciata di una cascina: l’ombra di un albero che, come una mano, sembrava serrare ogni persiana.
ENRICO SALEMI
Ero ancora in Accademia la prima volta che ho mostrato i miei lavori al mio professore, Giuseppe Frazzetto. Lui vedendoli mi consigliò di smettere, come consiglio “esistenziale”, mi disse, non “artistico”, perché la mia tecnica richiedeva un’imbarazzante quantità di tempo.
Io ho continuato a picchiettare con la matita sul foglio, in una sorta di ticchettio “micrologico” di segni minimi, affrontando sempre nuovi supporti su cui lasciare il mio personale disegno dello scorrere del tempo. Lavoro ogni giorno, durante questa quarantena, l’unica differenza di tempo che incontro è il contrattempo. Un tempo altro e differente, sospeso, come messo tra parentesi, che si installa in un tempo consueto, ordinario, sovraccaricandolo. Mi sono sempre detto, e questi giorni lo dimostrano con ogni evidenza, che il problema del tempo è la sua rappresentazione, altrimenti scivolerebbe silenzioso in sé.
FRANCESCA POLIZZI
L’eco del mito greco di Giasone e il vello d’oro, manto dell’ariete dotato di poteri magici, tra cui quello di guarire le ferite, si presenta nell’atto della sua emersione come immagine fragile ed effimera, e allo stesso tempo si ancora a una condizione perpetua nella sua alterità temporale, può essere una suggestione immaginifica e atemporale sul limite tra appartenenza e perdita. La ricerca attuale del mio lavoro è basata sull’utilizzo della lana grezza come materiale di elaborazione e traduzione della memoria, del vissuto. Diventa fibra capace di dare forma e di riceverla, di coprire e generare la superficie, di fare emergere l’immagine e allo stesso tempo preservare la sua presenza. Come nell’emersione del ricordo, l’immagine affiora e si proietta sulla trama, stratificando le sue tracce con frammenti appartenenti a diversi vissuti, temporali e spaziali. L’iniziale e primario processo di tosatura, lavatura e cardatura della lana grezza è parte integrante del parallelo processo di “rimemorazione” ed elaborazione della materia prima come elemento esistenziale, organico.
TURIANA FERRARA
La notte e il mistero che porta con sé rivestono queste immagini di una carica suggestiva, piena di attese, interrogativi, inquietudine. In queste fotografie il tempo sembra quasi sospeso, dilatato, in attesa di un evento, similmente alla sensazione che stiamo percependo in questi giorni, in alcuni casi svuotati dagli impegni e dalle precedenti abitudini. Questo tempo rallentato ci permette di prestare maggiore attenzione all’ambiente che viviamo, di accorgerci di particolari a cui non avevamo mai prestato attenzione, magari proprio di notte, al buio, osservando le stanze che abitiamo o guardando fuori da una finestra. Le due immagini qui presentate fanno parte di un più ampio progetto fotografico, Silent Houses, in cui protagonista è la vita notturna delle case, lo spazio architettonico interno e le tracce del passaggio della figura umana, qui assente, osservati di notte, al buio, illuminati dal chiarore di pochi raggi di luce riflessa, proveniente da altri ambienti interni o dalle finestre. Come per l’inquadratura nella fotografia, le finestre, in questi giorni di vita in quarantena, divengono la nostra selezione, porzione della vastità del mondo, orientano il nostro sguardo che scopre e riscopre la vita là fuori, all’esterno delle nostre sicure abitazioni. Un’apertura sul mondo per sentire di farne ancora parte.
SOFÍA RODRÍGUEZ
Pittura e poesia, arti che mi sono state vicine per tutta la vita, sono un esercizio che mi salva ogni giorno. Quando l’epidemia ha raggiunto il Messico e abbiamo dovuto isolarci a casa, mi sono resa conto che avevo più che mai bisogno di disegnare e scrivere. Da un lato, per concentrarmi su qualcosa che mi ha sempre sollevato e tenuto in uno stato meditativo di coscienza espansa, come solo la creazione può fare. Dall’altro, perché avevo (e ho) un urgente bisogno di ottenere informazioni sul tempo sospeso di questi giorni. Penso che gli artisti siano antenne che catturano le frequenze e le traducono in arte. Anche questa circostanza, per quanto terribile, porterà un cambiamento di coscienza che ci consentirà di captare nuovi messaggi in attesa di essere recepiti. È uno stato d’eccezione in cui le emozioni si intensificano e la percezione si acuisce. Uno stato in cui è possibile tornare all’essenza delle cose, per chiederci chi siamo, per affrontare la nostra fragilità, per rafforzare l’amore. Così, per amore, ho deciso di scrivere una poesia e fare un disegno ogni giorno. L’opera che ti invio s’intitola 23° giorno e questi sono i versi che l’accompagnano: “L’altra riva,/ il piano b/ il libro dell’aria che custodisce la nostra memoria,/ il vecchio film che gira/ sulla bobina del nostro cervello,/ tutto si sta cancellando./ Era necessario l’ozio di lunghe notti/ per avvicinare i sogni all’alba irrefrenabile./ Il viaggio è, ora/ verso la volta celeste del sangue./ La bussola interna parla/ dalla crisalide che siamo./ Il mondo è cambiato,/ da nato a non-ancora-nato./ Non ci sono più distrazioni, per distrarci da noi./ Questo siamo./ La commedia è finita,/ i nuovi parlamenti sono scritti negli echi del fogliame,/ nella preghiera che danza,/ è sempre stato così./ Respiriamo il muschio verde della pietra/ per trovare ciò che riposa acceso sotto la grande cenere della terra./ Smettiamo di temere la morte/ Smettiamo di essere figlie della paura./ Nessuno ritornerà sui suoi passi”.
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