Fase Due (VII). Connessioni
“L’evoluzione è connessione, fusione, intromissione, intersezione. Non c’è distinzione tra rumore e suono, tra opera e mondo, tra arte e vita”. Nuovi spunti e riflessioni di Christian Caliandro per analizzare le dinamiche, artistiche e non solo, della Fase Due.
“Whoa, ah, mercy mercy me
Oh things ain’t what they used to be, no no
Where did all the blue skies go?”
Marvin Gaye, Mercy Mercy Me
(What’s going on, 1971)
Riconosco un attrito fondamentale tra me e il mondo, tra me e la realtà, tra me e la mia epoca. Devo dire che mai come ora, forse, rifiuto categoricamente il presente e le sue declinazioni, le sue caratteristiche, le sue qualità. Io mi ribello nei confronti del presente, del mio presente. (Del suo essere così irrimediabilmente cheap: fuori all’apparenza è tutto nuovo di zecca – poi guardi bene ed è tutto dozzinale, un rottame, fatto con materiali scadenti. Il presente è così: nella politica, nella società, nella cultura, nell’arte: all’esterno scintillante, lussuoso, ricco; all’interno squallido, povero, miserabile.) Ne vorrei fortemente un altro – solo che non c’è un altro presente disponibile, bell’e pronto, ready-made – e allora so che lo devo costruire, lo devo creare a partire dagli elementi a disposizione, non da solo ma con l’aiuto dei miei compagni di strada. E di tutti coloro che provano il medesimo fastidio, la medesima irritazione.
Non è poi passato tantissimo tempo da quando un teschio ricoperto di diamanti è stato fatto passare addirittura per un capolavoro; e anche con l’elegante dito medio in marmo eretto di fronte alla Borsa di Milano, siamo più o meno lì.
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Questo periodo rappresenta l’occasione – unica – per liberarsi di ogni condizionamento. Per cogliere la palla al balzo. Per non pensare più in maniera verticale, maschile, egocentrica, egoista, solipsistica. Ma per accogliere, in modo aperto e sperimentale, tutte le idee e le sollecitazioni che vengono dal mondo, dal mondo in sommovimento e in trouble.
Tutti i problemi sono interconnessi, collegati tra di loro – così come le soluzioni. Razzismo, patriarcato, paternalismo, sessismo, classismo, elitarismo, disuguaglianza economica: sono tutte anzi declinazioni dello stesso problema, di un unico problema. E non ci può essere un’autentica innovazione politica e sociale, che non sia anche artistica e culturale.
“Avevamo alcol, pollo, musica; eravamo gli uni per gli altri e non avevamo bisogno di fingere di essere quelli che non eravamo. È di questa libertà che parlano, per esempio, alcuni gospel e il jazz. Nel jazz in genere, e nel blues in particolare, c’è sempre qualcosa di pungente e di ironico, autoritario e ambiguo. A quanto pare, per i bianchi d’America, invece, le canzoni allegre sono allegre e basta e quelle tristi sono tristi e, Dio ce ne scampi, questo è esattamente il mondo in cui le cantano, risultando in entrambi i casi così inevitabilmente e disperatamente fatui che uno non osa misurare i gradi del gelo da cui sgorgano quelle loro vocette asessuate. Solo chi è stato down the line, come dice la canzono, sa cosa significa quella musica” (James Baldwin, La prossima volta il fuoco, Fandango 2020, pp. 50-51).
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Il segreto – e la cosa davvero in comune tra alcuni artisti attivi in Italia in questo momento (sono d’altra parte gli autori delle opere che accompagnano regolarmente i pezzi di queste serie) – è l’articolazione con il tutto, con gli altri elementi, con il contesto, con la realtà, con la natura. Con l’altro. L’assenza di distinzione, di contorni tra sé e il mondo, tra sé e “ciò che il mondo è nel suo puro non equivalere al sé, ciò che rivendica essere intrinseco al non sé” (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero 2019, p. 59). Le connessioni: esplorare liberamente e radicalmente le connessioni, senza preoccuparsi di dove finisce “io” e dove inizia “l’altro”. Immergersi nel tessuto della realtà, fondersi con esso. La paura di perdere-sé, di scomparire, di essere inghiottito/a o annullato/a, non porta a nulla di buono, a nessuna evoluzione; coincide invece con la stasi, con la paralisi, con l’immobilità, con la morte.
È il senso dell’Ubuntu illustrato di recente da Laeticia Ouedraogo: “Umuntu Ngumuntu Ngabantu recita un proverbio zulù ancorato nell’eredità sociale e politica del Sudafrica che si può tradurre: ‘Io sono ciò che sono in virtù di ciò che siamo tutti’, e che in sé cristallizza l’essenza della filosofia umanista africana detta dell’Ubuntu. All’Ubuntu si ricorre spesso in situazioni di crisi, siano esse umanitarie o ambientali, per permettere alle entità disintegrate da tali crisi di riconciliarsi con l’universalità dei valori dell’umanità. (…) Il senso dell’Ubuntu è anche quello di non guardare passivamente alle sofferenze altrui, ma di creare una rete di sostegno capace appunto di riportare in superficie le sofferenze dei singoli, di abbracciare e setacciare collettivamente le miserie che a turno tutti gli esseri umani affrontano” (Gli Stati Popolari e la filosofia dell’Ubuntu, “L’Espresso”, 5 luglio 2020, p. 38).
L’evoluzione è connessione, fusione, intromissione, intersezione.
Non c’è distinzione tra rumore e suono, tra opera e mondo, tra arte e vita.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Due (I). Niente è come prima
Fase Due (II). Il peso della insostenibilità
Fase Due (III). Il problema del disprezzo
Fase Due (IV). Il ritardo dell’arte contemporanea
Fase Due (V). Tempo di morire, tempo di vivere
Fase Due (VI). Tirare le fila
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