Fase Due (IX). Il problema della tradizione
Nona parte del saggio a puntate di Christian Caliandro sulla "Fase Due". Dove si parla, fra l'altro, della differenza fra "trouble" e "problem" e di come la tradizione impedisca di creare una nuova tradizione.
Up and down my back, my spine, in my brain
It injures me, babe…
Anger, can make you old, yes it can
I said anger, can make you sick, children… oh Jesus
Anger destroys your soul
Marvin Gaye, Anger
(Here, my Dear, 1978)
L’ansia del riconoscimento, l’ansia dell’essere riconosciuti – come se da questo dipendesse il proprio valore, il senso della propria ricerca. Ma la storia dell’arte non funziona così. Si modifica la realtà, il mondo, solo partendo dalle idee concrete, dalle persone che influenzi e che ti influenzano, dai progressi piccoli o grandi che si fanno insieme, dai risultati che si ottengono insieme.
Tutte le lotte, le discussioni, le litigate, le speranze, le frustrazioni – per poi tornare al punto di partenza, ancora e ancora (“Tomorrow and tomorrow and tomorrow”) – ma la scelta non c’è, occorre guardare avanti, ancora e a ancora – non ci si può fermare, si può invece scoprire, esplorare, si può evolvere – “non conclude” – la vita non conclude, il racconto non conclude – siamo gli autori, gli attori, e al tempo stesso gli spettatori – recita, finzione – crollo, disintegrazione – rinascita, reintegrazione – un romanzo di fantascienza (Ballard, Dick) però più scadente, più pulp – “mai stato così lontano dall’essere OK” – e non possiamo fermarci, inutili i paragoni con gli Anni Sessanta e Settanta, inutile e dannosa ogni nostalgia – le liti, le discussioni, le frustrazioni, i sogni infranti, le illusioni perdute – meglio così, non scambieremmo forse questo periodo, questo momento con nessun altro – è il nostro, e tanto basta – niente “volevo essere”, “volevo che il mondo fosse”, ma tutto-come-è, come realmente è, il che non significa accettazione passiva ma cogliere e vivere l’IMPREVISTO, accettare l’imprevisto come nucleo fondamentale dell’esistenza – che noia, e che incubo, sarebbe se fosse davvero tutto programmato, previsto, incasellato, in un senso o nell’altro – non è affatto rassicurante, piuttosto agghiacciante – il trouble come ci dice Donna Haraway è molto diverso dal problem, perché a differenza di quest’ultimo non ha soluzione (non conclude), è un groviglio in cui immergersi e con cui fondersi, di cui entrare a far parte, da comprendere e studiare attivamente.
L’unica soluzione, l’unica via d’uscita è rendere presente l’assenza, la mancanza. Quale altra funzione per l’arte, e per la scrittura? Non ne conosco alcuna altrettanto valida.
“The Past is such a curious Creature / To look her in the Face / A Transport may receipt us / Or a Disgrace – / Unarmed if any meet her / I charge him flee – Her Rusty Ammunition / Might yet destroy –” (“Il passato è una strana creatura / se lo guardiamo in faccia / si può ricevere l’estasi / o vergogna – / Chi senz’armi lo incontra / “presto, scappa”, lo incito – / le sue munizioni rugginose / possono ancora uccidere –”, Emily Dickinson, 1203, in Poesie, Garzanti, Milano 2016, p. 155).
“«Mag-gie!» i bambini chiamano sotto il ponte della ferrovia dove stanno nuotando. Il treno merci risuona ancora, lungo cento carrozze, le macchine gettano bagliori sui piccoli bagnanti bianchi, cavallini di Picasso della notte, densi e tragici, dalla tristezza giunge la mia anima cercando quello che c’era e che è scomparso, perduto, in fondo a un sentiero – la tristezza dell’amore. Maggie, la ragazza che ho amato” (Jack Kerouac, Maggie Cassidy, Mondadori, Milano 2018, p. 38).
***
Il ricordo, la memoria è (familiare) come casa: a casa tua, o nella casa delle vacanze, conosci ogni stanza, ogni corridoio, ogni angolo, ogni dettaglio – perché questi angoli e questi dettagli, gli spazi e gli oggetti sono tutti, ma proprio tutti, legati ai ricordi della tua vita, del tuo passato. Scene persone racconti storie concatenazioni. Esiste un legame di tipo affettivo.
Anche l’immaginario, quando funziona bene ed è sano, si comporta così: stabilisce una relazione affettiva ed emotiva con gli esseri umani; le opere (canzoni, film, libri, immagini) sono importanti per noi perché agganciano la memoria individuale a quella collettiva, e viceversa. L’immaginario non è una cosa astratta, statica, slegata dalla realtà quotidiana della nostra esistenza: è invece una piattaforma concreta che cresce e si muove, che organizza costantemente i nostri sogni, le nostre paure, i nostri pensieri e le nostre visioni del mondo.
Ciò che ti lega è ciò che ti vuole morto.
Ciò che ti paralizza è ciò che non ti vuole far volare.
I condizionamenti non fanno altro che impedirci di essere ciò che siamo (ciò che siamo destinati a essere), costringerci dentro ruoli e caselle, ingabbiarci in formati e tradizioni che non ci appartengono, che non sono i nostri. I condizionamenti ci impediscono di creare e sviluppare i nostri formati, le nostre tradizioni.
– Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Due (I). Niente è come prima
Fase Due (II). Il peso della insostenibilità
Fase Due (III). Il problema del disprezzo
Fase Due (IV). Il ritardo dell’arte contemporanea
Fase Due (V). Tempo di morire, tempo di vivere
Fase Due (VI). Tirare le fila
Fase Due (VII). Connessioni
Fase Due (VIII). L’epilogo della finzione
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati