Fase Due (VI). Tirare le fila
Anche l’arte e chi se ne occupa devono fare tesoro dell’esperienza pandemica che stiamo vivendo e puntare sul dialogo, le relazioni, evitando l’isolamento.
“Ora puoi, il fisico ce l’hai
Per fare la rivoluzione che aspetto
Niente dirò e tu non capirai
Affronta la rivoluzione allo specchio”.
Verdena, Miglioramento
(WOW, 2011)
Questo è il momento di tirare le fila.
La quarantena ci ha donato chiarezza, e lucidità. Ha (ri)messo in ordine le priorità. Certo, sui social come sempre qualcuno si ostina a dire che tutto è stato già fatto, già sperimentato, già tentato. Io non credo; e comunque, anche se fosse così, il senso di tutto questo – l’arte, la cultura, pensare idee e opere, scriverne – significa provare e riprovare, continuamente, radicalmente. Ridire sempre, in forma diversa, le medesime poche cose: vita, morte, amore, odio, amicizia, fratellanza.
Ci sono delle distorsioni, sicuramente – e non da oggi. Già nel 1988 Jean Baudrillard per esempio avvertiva: “Quando si parla dell’arte, è perché non esiste già più. Certo, non nei fatti – la vediamo proliferare ovunque, e il discorso sull’arte ancora più velocemente ‒ ma nel suo genio, nella sua avventura, nella sua potenza di illusione, nella sua capacità di negare il reale e di opporre al reale un’altra scena in cui le cose obbediscano a una regola del gioco superiore (…) È questo a essere scomparso, questo patto simbolico con cui l’arte si distingueva dalla pura e semplice produzione di valori estetici che ben conosciamo sotto il nome di cultura: proliferazione di segni all’infinito, riciclaggio all’infinito di forme passate o attuali (il grado Xerox della cultura), ma dove non esiste più alcuna regola fondamentale, alcun criterio di giudizio, né il piacere…” (Transestetica, ne La sparizione dell’arte, Abscondita 2012, pp. 43-44).
Sembrano parole scritte oggi – e questo è un problema, ovviamente. Vuol dire che nell’ultimo trentennio non è cambiato granché, in campo artistico e culturale: nel modo cioè in cui le opere funzionano, e nel modo in cui si organizza e si articola la loro interpretazione. Questo però non può e non deve portare ad atteggiamenti di resa, oppure di cinismo (molto peggio quest’ultimo). Non è proprio il momento: il mondo è infatti in subbuglio, in sommovimento, in trouble.
RESPONSABILITÀ VERSO IL FUTURO
Questo è uno di quei periodi, abbastanza rari, che definiscono non solo il presente, ma anche e soprattutto il futuro. Con le nostre scelte, con i nostri comportamenti attuali stiamo determinando – che ci piaccia o no, che ne siamo consapevoli o meno – ciò che accadrà nei prossimi anni e decenni, e come vivranno le prossime generazioni dell’arte. Abbiamo quindi una grande responsabilità non solo nei confronti nostri e del nostro lavoro, ma anche rispetto a chi viene dopo di noi (gli attuali ventenni, quindicenni, decenni). Occorre perciò vincere a ogni costo la deresponsabilizzazione che caratterizza la società in genere, e in particolare l’arte e la cultura dell’Occidente, da troppo tempo. Così come è necessario sconfiggere la tendenza all’isolamento, all’individualismo, a starsene per i fatti propri, a coltivare esclusivamente il proprio orticello – una tendenza spacciata per vantaggiosa, ma che non lo è affatto, e che fa a pugni con le nozioni di contesto, di collaborazione competitiva e di condivisione – elementi necessari a qualunque “scena” artistica che voglia sperare di essere florida e stimolante.
Rinchiudersi non fa bene, da nessun punto di vista. Nessuna idea interessante può nascere senza un confronto costante, un dialogo vero – che non sia la semplice somma di monologhi – nutrito soprattutto dall’ascolto. Ascolto come dimensione privilegiata dell’intelletto e della conoscenza, come capacità di percepire l’altro, le sue esigenze, le sue istanze.
Se c’è una cosa infatti che la pandemia dovrebbe averci insegnato, a questo punto, è come davvero funziona la comunità. In modo controintuitivo, cioè, io difendo e proteggo me stesso solo se penso all’altro, se proteggo l’altro – e assolutamente non se penso unicamente a me, ai miei bisogni, ai miei desideri, al mio spazio. La relazione è la chiave dell’evoluzione: soltanto al suo interno esistono vita, gioia, salvezza e arte. Praticare quotidianamente questa consapevolezza (e non recitarla in maniera astratta) è forse il compito più importante della nostra generazione.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Due (I). Niente è come prima
Fase Due (II). Il peso della insostenibilità
Fase Due (III). Il problema del disprezzo
Fase Due (IV). Il ritardo dell’arte contemporanea
Fase Due (V). Tempo di morire, tempo di vivere
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