Ragnar Kjartansson a Milano con Fondazione Trussardi. Intervista a Massimiliano Gioni
Il cielo in una stanza di Gino Paoli è il brano scelto per raccontare il periodo del lockdown. Sarà cantato da performer selezionati dall’artista islandese, che si esibiranno nella Chiesa di San Carlo al Lazzaretto, luogo simbolico del milanese. Ce ne ha parlato il curatore del progetto The Sky in a Room, Massimiliano Gioni
Fondazione Trussardi torna a Milano con un nuovo progetto volto a rappresentare le paure e le angosce che hanno predominato durante periodo del lockdown e dell’isolamento sociale. The Sky in a Room è il progetto di Ragnar Kjartansson (Reykjavík, 1976) che si svolgerà dal 22 settembre al 25 ottobre 2020 presso la Chiesa di San Carlo al Lazzaretto, edificata nel Cinquecento come un altare da campo posto al centro del ricovero per appestati, durante le coeve epidemie che scuotevano la città. Un luogo, insomma, non scelto casualmente, la cui storia richiama la memoria di Milano, dell’Italia e delle sofferenze patite dalla popolazione.
RAGNAR KJARTANSSON A MILANO PER FONDAZIONE TRUSSARDI
Al suo interno, ogni giorno per tutta la durata dell’evento, cantanti professionisti si alterneranno, uno alla volta, all’organo della chiesa per eseguire un etereo arrangiamento della celebre canzone di Gino Paoli, Il cielo in una stanza, che si ripeterà ininterrottamente per sei ore al giorno, come una ninna nanna infinita. Perché proprio questo brano? Per “la sua capacità di trasformare lo spazio“, come sostiene Kjartansson, tanto da creare immaginari fantastici all’interno di quattro mura, allo stesso modo in cui, durante il picco del Covid-19, la mente di tutti coloro che erano forzati alla quarantena si muoveva altrove, come forma di resistenza alla realtà. Così The Sky in a Room diventa un memoriale contemporaneo, un’orazione civile – interpretata dal canto della collettività – in ricordo di un inaspettato e tragico momento da cui nessuno è stato risparmiato. Se si vuole aspirare a far parte dei performer che interpreteranno Il cielo in una stanza, partecipando al progetto, basta rispondere alla call al seguente link. Di seguito, l’intervista al curatore Massimiliano Gioni.
Come ha avuto origine questo progetto? Sappiamo che la pandemia ha sconvolto la programmazione anche di Fondazione Trussardi.
Questo progetto ha avuto una genesi piuttosto inusuale, come d’altra parte inusuale è stata la nostra vita negli ultimi sei mesi. Con la Fondazione Nicola Trussardi lavoravamo ormai da quasi un anno alla realizzazione di un progetto di Olafur Eliasson per l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele: un progetto collettivo, nel quale il pubblico era invitato a partecipare alla costruzione di una grande scultura in Lego in perenne movimento e trasformazione. Il progetto di Olafur Eliasson, intitolato proprio The collectivity project, avrebbe dovuto inaugurare durante la settimana dell’arte per miart in aprile. Purtroppo sappiamo tutti come le cose sono cambiate a partire da febbraio e lo abbiamo dovuto posticipare…
Puoi parlarci delle attività portate avanti dalla fondazione sotto il lockdown?
Durante le settimane del lockdown la Fondazione Nicola Trussardi ha presentato Viaggi da camera, un progetto per le nostre piattaforme digitali per il quale abbiamo invitato oltre sessanta artisti italiani a raccontarci il loro spazio domestico, reale o fantastico, attraverso immagini e opere d’arte. Proprio durante i mesi di isolamento, abbiamo iniziato a pensare a che cosa significasse fare arte pubblica in un paesaggio ormai completamente trasformato: ci ricordiamo ancora tutti le strade e le piazze – gli spazi pubblici appunto – completamente deserte.
E cosa avete tratto da queste riflessioni?
Abbiamo pensato di lavorare quasi in direzione opposta, pensando più al raccoglimento, alla contemplazione, a uno spazio non di isolamento e solitudine, ma di intimità e prossimità, vissute però non più come una chiusura forzata ma come un’esperienza di esplorazione del sé, anche di conoscenza dell’altro e persino di amore.
E qui arriviamo a The Sky in a Room.
Da qui è nata l’idea di un’opera d’arte pubblica che potesse essere vissuta quasi in totale intimità, persino in solitudine, anche una persona alla volta. Come per molte altre mostre e incursioni della Fondazione Nicola Trussardi, abbiamo scelto il luogo e l’artista quasi in contemporanea. San Carlo al Lazzaretto è un luogo così ricco di storia e immediatamente legato all’esperienza che abbiamo conosciuto tutti in questi mesi: c’è qualcosa al contempo di inquietante e rassicurante nel ricordarsi che non siamo stati i primi, e non saremo gli ultimi, a fare l’esperienza terribile di una pandemia…
Cosa del lavoro di Kjartasson ti ha fatto capire che sarebbe stato l’artista giusto per trattare di un periodo così tragico e delicato, soprattutto per il territorio lombardo?
L’opera di Ragnar Kjartansson, in generale, ma questa The Sky in a Room in particolare, sono sempre legate a questo senso di intimità e malinconia, di estrema vicinanza, al quale però si accompagna il senso di una distanza insondabile, dell’impossibilità di afferrare ciò che si desidera.
E questo si collega con Il cielo in una stanza?
La canzone di Gino Paoli, che come certe canzoni italiane è quasi ormai una sorta di inno nazionale, ci parla in maniera così immediata dell’esperienza di solitudine che abbiamo fatto tutti in questi mesi, anche se in fondo è una canzone che ha fiducia nella capacità dell’amore e dell’immaginazione di valicare ogni distanza e di sfuggire a ogni recinto. All’interno della Chiesa ci si carica anche di una tensione spirituale che è sempre presente nell’opera di Kjartansson e che è anche evocata dalla canzone originale.
Quanto e in che modo sarà presente l’aspetto di collettività all’interno di quest’opera?
Direi che, come le più belle opere d’arte, a costo di sembrare un po’ kitsch e sentimentale, questa installazione – questa scultura musicale, la possiamo chiamare – ha la forza di farci sentire noi stessi e al contempo uguali a tutti gli altri. E questa è un’esperienza di coralità, che si scopre però al fondo di una solitudine.
Le iscrizioni sono aperte: avete un candidato-tipo?
L’ultima parola ce l’ha Ragnar, che è sempre bravissimo nei suoi casting. In tutte le sue opere – che siano video o performance – i suoi attori, musicisti e cantanti hanno la bellezza decadente di dandy contemporanei o pose languide di bellezze klimtiane o pre-raffaelite. Ma poi ci sono dettagli sempre un po’ curiosi e vagamente comici o troppo umani…
Ad esempio?
La parodia di una mascolinità troppo ostentata è sempre ricorrente nelle sue opere, così come il tentativo impossibile di raggiungere la perfezione. In fondo la ripetizione, che è la cifra stilistica di Kjartansson, è il modo in cui cerchiamo di perfezionarci, è l’esercizio con cui cerchiamo di migliorarci, ma è anche la dimostrazione della nostra pochezza, della nostra umanità, che si ripete uguale anche quando ci illudiamo di essere unici.
– Giulia Ronchi
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