Dal papercut a Woody Allen. Intervista a Marco Gallotta
Nato in Italia, ma di stanza a New York da ventitré anni, Marco Gallotta ama sperimentare diversi linguaggi artistici, spaziando dalla carta intagliata al cinema. Ne abbiamo parlato con lui.
Marco Gallotta è un artista di origini salernitane, classe 1974, che vive e lavora a New York da ventitré anni. Ha di recente partecipato alla 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia con il cortometraggio Waiting for Woody, diretto da Claudio Napoli. L’artista ha fatto del papercutting il suo modus operandi e può vantare collaborazioni con partner quali Chanel, Vogue, Campari, Timberland, Nike, e figure note come Ennio Morricone e Will Smith.
Iniziamo con una domanda banale quanto necessaria: chi è Marco Gallotta?
Marco Gallotta è un artista poliedrico. Lavoro nel campo dell’arte da anni e amo sperimentare, utilizzando metodologie diverse. Alla base della mia arte c’è la tecnica del papercutting, pratica antica che ho voluto riprendere cercando di interiorizzarla e rendendola mia, aggiungendo diversi elementi e materiali. Quando lavoro, intaglio la carta con un bisturi e sopra di esso applico vernici e colori, utilizzando carte riciclate, libri datati, fotografie e usufruendo anche della cera.
Quando è arrivata la vocazione per l’arte?
Sono sempre stato vicino all’arte fin da quando ero bambino. Mio zio era un artista, musicista e pittore e son cresciuto nel suo studio, osservandolo, fino a giungere alla necessità di creare qualcosa di mio. Mio padre non era un artista, anzi tutt’altro, era un avvocato! Eppure, era un amante dell’arte e ha sempre spinto per la mia vocazione. Ogni viaggio che facevamo, fin da quando ero bambino, doveva comprendere visite a gallerie e musei, portandomi così ad avvicinarmi a una dimensione culturale. A prescindere dalle influenze che ho ricevuto durante la mia crescita, l’arte è sempre stata la mia passione e fin dalla giovinezza ho fatto sempre e solo questo.
Hai anche viaggiato molto.
A 18 anni ho lasciato la mia città in provincia di Salerno e son andato in Trentino a lavorare come guida alpina, stando per qualche anno a stretto contatto con la natura. Questa è stata un’esperienza che mi ha definitivamente ispirato, in quanto vivevo circondato da paesaggi naturali e suggestivi. Successivamente ho vissuto a Londra, Amsterdam e Ginevra, per poi giungere a New York. Una volta arrivato, ho capito subito che sarebbe stata la città dove avrei fatto una pausa e infatti è ventitré anni che vivo qui. Vivo a Manhattan, precisamente ad Harlem, luogo di influenza per numerosi movimenti artistici.
MARCO GALLOTTA DALL’ITALIA A NEW YORK
In che modo l’entrare in contatto con dimensioni culturali differenti ha influito sulla tua produzione artistica?
Ogni luogo in cui sono stato ha agito sulla mia arte, influenzandola. Di ogni posto in cui ho vissuto conservo delle memorie. Viaggiare apre la mente, perché ti aiuta a capire come differenti culture pensano la vita. Tutto questo è un bagaglio di notevole importanza che porto con me quotidianamente. Poi, nel particolare, New York è un fulcro di elementi culturali differenti e amalgamati, che influenzano e ispirano chiunque passi di qui.
Entrando nello specifico del tuo lavoro, osservandolo è evidente come in esso si manifesti un gioco di scomposizioni e sovrapposizioni, con l’alternanza di strutture lineari che arrivano a ridefinire la realtà che intendi raccontare. Poste queste premesse, qual e l’obiettivo a cui mirano le tue produzioni?
Io mi ritengo un artigiano. Sono un artista che ama lavorare con le mani e la mia arte ne è l’espressione, nel particolare dell’uso dei dettagli e del tempo dedicato. I risultati della mia partica hanno un aspetto scultoreo, composti da differenti strati di carta tagliati e sovrapposti.
Ritengo che viviamo in una società che ha perso di vista l’aspetto del dettaglio, viviamo una vita frenetica, e i social condizionano il nostro modo di guardare la realtà, portandoci a concentrarci su immagini e testi per pochi secondi, fruendoli con velocità e scarsa attenzione. Il mio è un invito a rallentare, stimolando lo spettatore a soffermarsi a osservare i dettagli, per comprendere cosa ci sia al di là delle immagini. I tagli rappresentano la vera essenza dei miei soggetti, che vanno oltre la superficialità apparente dell’immagine.
Di recente hai lasciato la Grande Mela per tornare in Italia e approdare alla 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia con la presentazione del cortometraggio Waiting for woody. Qual è stato il tuo ruolo nella realizzazione del cortometraggio? Puoi darci maggior informazioni sul film?
Il film nasce da un’idea mia e dell’attore italiano Yari Gugliucci. Ci siamo affidati alla regia di Claudio Napoli, figura nota nel cinema, che in passato è stato premiato con un David di Donatello. Io e Yari siamo amici e da tempo volevamo lavorare insieme, ricercando una formula che unisse i nostri diversi approcci artistici: questo corto ne è il risultato, un tributo a un’icona del cinema quale Woody Allen. L’idea alla base è di mostrare New York tramite le nostre differenti pratiche, una New York dei tempi andati, come spesso è presente all’interno dei film del maestro. Anche se nello specifico parliamo della Grande Mela, il discorso va ampliato alla realtà. L’opera, infatti, oltre a essere un tributo, cerca di proporre una riflessione sul momento in cui viviamo, ponendosi domande di un certo peso. In fase realizzativa io sono stato co-produttore e co-writer, nonché uno dei due interpreti del film.
In questo caso il film è stato presentato all’Arsenale, nell’ambito di Boat in Campari, ma non è stata la tua unica collaborazione con brand di un certo livello. Per citarne altri, grandi nomi come Chanel, Vogue, Nike. In che modo un artista entra in contatto con realtà commerciali di livello e come New York influenza da questo punto di vista la tua carriera?
L’artista brandizzato è qualcosa che esiste da sempre, Warhol stesso nasce in questo modo.
Io, personalmente, adoro lavorare con i brand perché li vedo come delle sfide, nel portare Marco Gallotta per Chanel o per Campari e riuscire a esserne all’altezza. Lavoro in studio, quindi spesso porto avanti progetti personali, ogni qualvolta che posso, però, cerco di proporre i miei lavori e portare avanti progetti con i brand, che risultano importanti dal punto di vista della visibilità oltre che da quello economico. La mia carriera nasce a New York e non saprei dirti perciò quanto questa città abbia influito, in quanto non ho termini di paragone.
La cosa certa è che qui, ogni giorno, ci sono numerose opportunità, incontrando persone nuove, fronteggiando una proposta continua di progetti diversi. Ovviamente questo fa sì che vi sia anche una competizione notevole, perché il numero di creativi è alto ed emergere è difficile.
L’AMERICA SECONDO MARCO GALLOTTA
Sempre parlando di America, gli Stati Uniti stanno vivendo un momento particolarmente buio della sua storia. Quanto questo ha avuto modo di incidere nella tua pratica e cosa significa fare arte oggi in America?
Ho realizzato un’opera come tributo a George Floyd e ho a cuore quanto sta accadendo, per sollevare una questione che oggi è radicata nella situazione politica e sociale americana e che sta emergendo con ferocia ora che alla guida del Paese c’è una persona che, a mio avviso, crede in ideali corrotti; coltivando una cultura fatta di odio e violenza, dando l’opportunità alle persone sbagliate di far venire fuori la loro vera essenza, o, come diciamo qui, i loro true colors. New York da questo punto di vista è una mosca bianca, è una città diversa e aperta che non definisce ciò che sta vivendo l’America. Ovviamente, anche qui si avverte una forte tensione e io come artista sto cercando attraverso la mia pratica di mostrare supporto alla black community, che mi ha ispirato da sempre nelle mie produzioni. L’arte non sta vivendo un bel momento negli Stati Uniti, la situazione politica attuale non mette in risalto la figura dell’artista, cercando anzi di metterla da parte. Ma la cultura e la creatività verranno sempre fuori, soprattutto in momenti come questi.
Chi è oggi Marco Gallotta? E quali sono gli obbiettivi per il futuro?
Marco Gallotta rimane uno sperimentatore, un artista in continua evoluzione.
Sto cercando di conoscere anche ambienti diversi e il mio lavoro all’interno di Waiting for Woody ne è un segnale. Vorrei poter replicare nuovamente il progetto appena terminato e conoscere maggiormente il cinema: l’idea è quella di creare un format simile introducendo altri artisti per giungere, infine, a un lungometraggio. Altro campo che sto sperimentando è la scultura, sempre usando la mia tecnica ma con elementi diversi come ad esempio il metallo. Ho da poco terminato un’installazione permanente di public art per la città di Norwalk, nel Connecticut, e ora sto lavorando a un progetto per la metropolitana di New York, dove ci saranno sei mie diverse installazioni in metallo intagliato e avrò a mia disposizione una intera stazione.
‒ Nicola Bacchetti
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