Cortocircuiti e transesperienze. La retrospettiva di Chen Zhen a Milano
“Short-circuits” è la grande retrospettiva dell’artista cinese Chen Zhen, morto prematuramente a Parigi nel 2000, ospite del Pirelli HangarBicocca di Milano. Un viaggio tra oriente e occidente, tra centro e periferia, ma anche tra corpo e spiritualità.
Ha aperto al Pirelli HangarBicocca di Milano la grande retrospettiva di Chen Zhen (Shanghai, 1955 – Parigi, 2000), uno dei più importanti protagonisti della scena artistica contemporanea, fautore di una sovrapposizione a tratti stridente tra linguaggio orientale e occidentale, tradizione e modernità.
LA MOSTRA DI CHEN ZHEN ALL’HANGARBICOCCA
Short-circuits, a cura di Vicente Todolí, riunisce in un unico percorso oltre venti installazioni su larga scala, tra le più significative della produzione dell’artista. Sono tutte datate tra il 1991 e il 2000: siamo nel pieno dell’era della globalizzazione, un fenomeno che mette in comunicazione culture fino a quel momento lontane tra loro, amalgamandole sotto il comun denominatore del consumismo. Un’esperienza che Chen Zhen vive direttamente sulla propria pelle, interiorizzando sia il mondo orientale (nella sua città natale, Shanghai), sia quello occidentale, in seguito al trasferimento a Parigi, terra della sua piena presa di coscienza artistica. I due mondi si incontrano, scontrandosi frequentemente, nelle opere in mostra, intitolata non a caso Short-circuits: il cortocircuito è la linfa vitale delle grandi installazioni esposte, in cui il silenzio della cultura buddista viene quasi soffocato dal frastuono dello scarto, del rifiuto, del surplus prodotto dalla società dei consumi.
LE OPERE DI CHEN ZHEN ESPOSTE A MILANO
In questo senso, emblematico è l’ambiente finale – la mostra non ha un percorso prestabilito – Jardin-Lavoir: 11 letti-culle sono trasformati in vasche, in cui scarpe, giocattoli, libri e persino televisori giacciono sotto il pelo dell’acqua, annientati per sempre da piccoli getti (un richiamo al giardino zen) che scorrono inesorabilmente. Altra opera emblematica è Fu Dao / Fu Dao, Upside-down Buddah / Arrival at Good Fortune, in cui, dalle fronde di alcuni bambù, spuntano come frutti anomali objet trouvé di ogni tipo, dai quali a loro volta pendono alcune statuette raffiguranti dei Budda a testa in giù. Ancora una volta, le esperienze vissute dall’artista attorno ai due poli opposti del mondo emergono come una stratificazione all’interno della sua opera. Talvolta, il binomio naturale-artificiale assume anche i connotati dell’archeologia di un’era distopica, come in Éruption future, dove uno schermo luminoso emerge al centro di un cumulo di bauxite.
LE TRANSESPERIENZE DI CHEN ZHEN
Il cambio di continente, di paradigma e di paesaggio, di cui l’artista fa esperienza durante i suoi viaggi, ha sulla sua percezione un tale impatto che Zhen conia appositamente un vocabolo, chiamandole “transesperienze”. Ma non si tratta solo del passaggio tra Cina e Francia: Zhen entra in contatto anche con altre culture, tentando per tutta la vita di condensare questa babele di linguaggi in un’unica cifra stilistica. Ne è un esempio l’opera The Voice of Migrators, in cui da un’enorme sfera fatta di tessuti intrecciati emerge la voce di alcuni migranti intervistati dall’artista stesso. Tra le opere più significative, invece, Jue Chang, Dancing Body – Drumming Mind (The Last Song), posta all’ingresso: si tratta di una monumentale installazione composta da numerose sedie e letti provenienti da diverse parti del mondo e ricoperti di pelli di vacca. Un’opera che fu “attivata” alla Biennale di Harald Szeeman del 1999 da alcuni monaci tibetani e che tornerà a emettere i propri suoni il 5 novembre 2020 e il 14 gennaio 2021 all’interno del public program della mostra, con uno spettacolo che coinvolgerà danzatori e percussionisti.
‒ Giulia Ronchi
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