L’arte come forma di scetticismo. Markus Schinwald a Vicenza
La Fondazione Coppola riapre al pubblico con “Misfits”, la personale di Markus Schinwald. L’artista austriaco torna in Italia, dopo la mostra da Giò Marconi nel 2008 e la partecipazione alla Biennale del 2011 in cui rappresentò il proprio Paese, con una monografica che ne ripercorre i linguaggi e le pratiche attraverso una selezione di opere. Fra pittura, scultura, video, installazione, architettura e moda.
“Scetticismo e curiosità. E la capacità di sollevare costantemente dei dubbi”. Questa, secondo Markus Schinwald, dovrebbe essere l’attitudine dell’artista non solo al proprio lavoro, ma alla vita stessa, alla politica, alla società, all’economia, alla storia. A tutto ciò che ci circonda e che struttura la nostra realtà. “L’accettazione dello status quo, o peggio ancora l’apologia, sono la tomba dell’arte, o perlomeno della buona arte ed è un atteggiamento che purtroppo riscontro sempre più spesso nei giovani artisti e questo mi spaventa”.
Markus Schinwald (Salisburgo, 1973) è senza dubbio un artista poliedrico che si muove con competenza e naturalezza fra pittura, scultura, video, installazione, architettura e design. “Amo i confini fra le discipline e non credo alla loro abolizione. Tuttavia li trasgredisco continuamente: mi ritrovo a dipingere come uno scultore, a disegnare come un architetto. Come artista non posso dire di essere legato a un unico linguaggio”. Seppur così varia, questa produzione presenta una forte coesione di stili e contenuti, data forse proprio da quell’atteggiamento critico che ne è al contempo il principio ispiratore, la nervatura e il fine ultimo. Non una polemica sterile, un “anticonformismo a tutti i costi”, quanto piuttosto una messa in discussione radicale della realtà e di alcuni fra quei concetti, quali “corpo” (individuale e collettivo), “identità”, “società”, “movimento”, “storia” e “tempo”, che assumiamo come universali, incontrovertibili, dimenticandoci della loro contingenza e perciò del loro poter essere all’occorrenza revisionati e adattati.
MARKUS SCHINWALD E IL PARADOSSO
Il paradosso – nella sua accezione originaria di “contrario all’opinione dominante” – è centrale nei lavori dell’artista austriaco, il cui universo è popolato di rampolli dell’alta borghesia ottocentesca che mostrano con fierezza protesi – a metà fra strumenti di tortura e sex toys – che ne alterano il volto, celando o evidenziando parte di esso; bambini-marionette con visi rugosi da anziani che scandiscono un tempo limbico di eterna attesa con sospiri impazienti e movimenti stereotipati; macchine che non assolvono alcuna funzione; gambe di tavoli senza tavoli, piedistalli di monumenti senza monumenti. Contraddizioni, apparentemente inconciliabili con quanto sappiamo (o crediamo di sapere) ed esperiamo (o pensiamo di esperire) quotidianamente. Aporie tuttavia che, se adeguatamente impiegate, potrebbero diventare modalità di accesso alternative alla realtà.
LA MOSTRA A VICENZA
Gradini, parecchi gradini. Raggiungere gli ultimi cinque livelli del Torrione medievale di Porta Castello, sede della Fondazione Coppola che ne ha finanziato e curato l’elegante restauro, comporta una certa fatica, del tutto ripagata dalla vista che si apre sulla città, unanimemente riconosciuta come una delle più belle di Vicenza. Fatica che, come nota il curatore della mostra Davide Ferri, è un aspetto centrale, forse addirittura un fil rouge nella poetica di Schinwald. Una difficoltà che si rintraccia anche nel doversi confrontare con uno spazio così intimo come quello del Torrione, reso ancor più complesso dall’esigenza di distanziamento degli ultimi tempi. Fortemente verticale, ripido, contraddistinto in ogni suo scorcio dalla muratura originale. Schinwald accoglie la sfida e non solo coinvolge l’architettura nell’allestimento, ma la fa entrare nelle opere creando un dialogo, una sottolineatura reciproca fra installazione e spazio circostante. La mostra si apre con Marionettes, un gruppo di dodici individui di età indefinita, bambini dal volto segnato e serio o anziani di piccola statura, vestiti con giacche eleganti e manovrati da fili che ne controllano i movimenti ripetitivi: piedi che tengono il tempo, mani che battono, busti che ruotano a un ritmo costante ma impaziente, quasi anticipatore di una ribellione imminente. Il movimento produce una partitura visuale e uditiva, regolare e imprevedibile insieme. I piani successivi ospitano la produzione pittorica di Schinwald, che acquista ritratti sette-ottocenteschi della buona borghesia europea e li manipola, interviene sulla superficie pittorica per sottrazione o addizione. Inserisce protesi e maschere, cancella porzioni del volto, altera i corpi celandoli o amplificandoli, sfuma rendendo quasi impercettibile il confine fra figura e sfondo. L’azione pittorica va oltre il suo contenuto: l’intervento di Schinwald è una presa di posizione nei confronti della storia dell’arte. Non si tratta semplicemente di modificare un dipinto ma di conferirgli una seconda vita, di collocarlo in un contesto nuovo nel quale assume proprietà e rimandi che non aveva in origine. Significa espandere la dimensione spazio-temporale dell’opera, trascenderne i confini artistici e culturali. “Quello che faccio è ‘mildly aggressive’, è un’aggressività mite ma forse ancor più deleteria. Non stravolgo il dipinto ma uso la tecnica del restauro contro i suoi stessi princìpi: non risolvo un problema, ne creo uno”. È una pratica auto-sovversiva, che tradisce gli assunti sui quali si fonda per metterli in discussione, per portarli alle estreme conseguenze. Ancora una volta, un paradosso. In mostra anche Orient A e Orient B, i due video che Schinwald portò alla Biennale del 2011, in cui performer in ambientazioni stranianti compiono azioni abituali in modo insolito, sfidando il corpo e le sue possibilità plastiche.
LA SCULTURA E LE STAMPE DI SCHINWALD
Il percorso prosegue con i lavori scultorei dell’artista, che smembra tavoli in stile Chippendale e ne riassembla le gambe in pose sensuali, creando un chiaro rimando alla figura femminile e alla censura che mobilia di questo tipo conobbe in epoca vittoriana, laddove le sue forme venivano considerate scabrosamente erotiche. La serie dei Monuments chiude la mostra, un corpus di stampe che riprendono antiche incisioni su cui Schinwald interviene rimuovendo le statue e lasciando solo vuoti ma eloquenti piedistalli. L’artista mette in discussione così l’idea stessa di storia come narrazione univoca e irrefutabile, di cui il monumento è l’emblema. Lo scetticismo in fin dei conti è proprio come una pratica artistica: si può affinare ma non si può imparare per imitazione; non è una serie predefinita di azioni o scelte, parole o pensieri ma una postura, un atteggiamento nei confronti della realtà che non ti abbandona mai, che tu dipinga, scolpisca, sia artista, filosofo o scienziato.
CHI SONO I MISFITS?
Mis-fit, dis-adattato. Scelta curiosa per il titolo della mostra di un artista che nasce e si forma come designer di moda e il cui gusto nell’accostamento cromatico e tattile è evidente tanto nella scultura che nella pittura. Misfit può significare infatti sia “inserito in un contesto inadeguato” che “della misura sbagliata” e può quindi essere a ragione attribuito a una persona, una situazione o un capo d’abbigliamento. “L’unica vera formazione completa che ho ricevuto è stata come designer di moda, ma fin da subito ho capito che non sarei diventato un bravo stilista. Tuttavia ho studiato a lungo e a fondo la storia del costume di cui mi interessa tutt’oggi il fatto che qualsiasi cosa la moda abbia prodotto, dal peplo greco fino allo stile hip hop, sia sempre servita o a coprire o a costringere il corpo”. Visitando la mostra viene da chiedersi chi siano i misfits per Schinwald. Forse le opere, trascinate dal contesto in cui vennero prodotte e collocate qui, oggi, manipolate, trasformate e corredate così di nuovi significati.
O forse i personaggi, le figure così diverse eppure così simili che animano i dipinti, i video e le sculture dell’artista. O forse siamo noi, pubblico incluso ma in forma limitata, a metà fra l’imbarazzo e l’avidità dell’occhio che spia dal buco della serratura.
“Non c’è costrizione nei miei personaggi. Le protesi che indossano non sono imposizioni, strumenti di tortura. Suppliscono a dei desideri, colmano le mancanze e le imperfezioni del corpo e della psiche umani. Nessuno pensa che i tacchi siano comodi, eppure vengono indossati in vista dei vantaggi – posturali, estetici e sociali – che comportano”. Non siamo così diversi dai rampolli borghesi che ci ammiccano con le loro protesi in bella vista. Condividiamo i medesimi desideri, ci struggiamo per le stesse mancanze ed escogitiamo strategie comuni per colmarle, consci che la nostra imperfezione è costitutiva e in quanto tale non potrà mai essere risolta. È nella distanza fra ciò che siamo e ciò che aspiriamo a diventare che si consuma il “disadattamento”, l’“essere in un contesto sbagliato, della misura sbagliata”. Ma è anche lo spazio in cui è possibile trascendere i vincoli, superare i limiti. I misfits allora siamo noi e sono loro, siamo tutti. E forse lo scettico è proprio colui che ha più coscienza di questo disadattamento. Sentendo stretto il mondo che gli è stato cucito addosso, trova la forza di immaginarne e realizzarne altri possibili e di condividerli con gli altri.
‒ Irene Bagnara
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