Le installazioni di Sultan bin Fahad alla Fondazione Fendi di Roma
La Rhinoceros Gallery ‒ Fondazione Alda Fendi-Esperimenti ospita le opere installative di Sultan bin Fahad. Fra rimandi alla tradizione religiosa e linguaggi visivi contemporanei.
“Sono trascorsi quasi vent’anni dalla nascita della sua Fondazione. Le va di fare un bilancio?“, abbiamo chiesto ad Alda Fendi. “La mia Fondazione è nata nel 2001, quando ho deciso di seguire il mio sogno di sempre e dedicarmi esclusivamente all’arte, con il sostegno delle mie figlie Giovanna e Alessia” – racconta la celebre stilista e mecenate – “Il nostro obiettivo è la sperimentazione, percorrere sentieri nuovi con un pensiero nomade e arioso e posso dire che sono stati venti anni di entusiasmo e di scoperte a trecentosessanta gradi, che abbiamo sempre voluto rendere accessibili gratuitamente. Dopo undici anni di teatro multimediale, con le performance scritte e dirette da Raffaele Curi, oggi gli esperimenti proseguono con il Palazzo Rhinoceros, un edificio del Seicento interamente restaurato da Jean Nouvel e ispirato ai Passages di Parigi di Walter Benjamin, dove poter vivere e abitare nell’arte”.
L’ARTE DI SULTAN BIN FAHAD
Ci aggiriamo, incuriositi, tra le installazioni dell’artista saudita Sultan bin Fahad (Riyad, 1971; vive a Los Angeles), membro della famiglia reale, pazientemente accompagnati da Michela Cantatore, coordinatrice della Rhinoceros Gallery. Ci sovviene che, lo scorso anno, la Fondazione ha curato, su incarico della Saudi Commission, la direzione artistica e il concept design della mostra Roads of Arabia. Tesori archeologici dell’Arabia Saudita. Tutto ciò che vediamo percorrendo le sale dell’originalissima galleria, disposta su due piani, ci rimanda, come in un viaggio mistico-estetico, alla tradizione religiosa dell’artista: pannelli divisori in ottone originari della Mecca; pesanti reperti archeologici in pietra incisa; oggetti in marmo bianco polito di varia foggia di provenienza templare e, in contrappunto, video in loop e tessuti sonori monocordi che ci immergono in una folla di fedeli oranti e nel brusio indistinto e avvolgente di una preghiera corale.
VERSO LA MECCA E RITORNO
A sorpresa, nell’ultima sala, veniamo invitati dalla nostra preziosa guida a infilarci sotto un cubo nero appeso al soffitto ‒ con tutta probabilità simboleggiante la Kaʿba ‒ dal cui interno promana un suono ossessivo, vagamente ipnotico: la misteriosa frequenza che dà il titolo alla mostra. Ci rendiamo conto di aver fatto, simbolicamente, un pellegrinaggio alla Mecca e apprezziamo l’intento di Sultan bin Fahad di volere, in qualche modo, trascendere la propria cultura d’origine ‒ nella quale appare ben radicato – per abbracciare il linguaggio universale dell’arte senza lesinare ibride contaminazioni espressive e stimolanti sintesi concettuali.
‒ Luigi Capano
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