Case e confinamento. La mostra di Tomaso De Luca a Roma e Pereto

Le sedi della galleria Monitor a Roma e Pereto ospitano la mostra di Tomaso De Luca, in dialogo con una serie di artisti sul tema della casa come rifugio e il suo contrario.

Forse si può cominciare dalla pittura fiamminga, paradigma di ogni interno borghese che fu testo formativo per un Tomaso De Luca (Verona, 1988) studente. O forse invece si può partire dalla malattia che da tempo, nei suoi lavori, è fortemente legata ai luoghi, agli spazi, alla casa per scardinarne ogni ordine e deformarne ogni angolo come fece nel 2012 in Tropical Malady, mostra in memoria di una epidemia che funestò Parigi e vide gli haitiani accusati di esserne stati gli untori. O ancora invece è l’architettura moderna e modernista e quelli che ne furono i più irriverenti discepoli come Bruce Alonso Goff: estremista della lezione organica che invase l’Oklahoma di edifici eccessivi, suscitò l’ammirazione di Frank Lloyd Wright e lo sdegno dei benpensanti nonché (tornando a noi) ha ispirato il titolo di questa doppia mostra di De Luca tra le sedi della galleria monitor di Roma e Pereto, titolo che recita We Don’t Like Your House Either!. Dunque di quali case parliamo qui? Di quelle riparo e prigione di ogni confinamento perché questa vicenda inizia ben prima del confinamento da Covid, anche se poi lo incontra e lo interpreta.

L’IDEA DI CASA NELL’ARTE DI TOMASO DE LUCA

Il confinamento” scrivono Francesco Urbano Ragazzi, curatori e complici di De Luca in questo progetto, “tocca da sempre, in maniera più ravvicinata e tragica, tutti coloro che non possono riconoscersi ‒ per esclusione, per scelta, o per entrambe ‒ dentro i paradigmi della vita agiata. Gli svantaggiati, gli esclusi, gli oppressi, i malati, i migranti, gli esuli, gli outsider, i poeti, gli artisti“. Compresi quegli artisti, colleghi vivi o scomparsi, chiamati da De Luca a testimoniare insieme a lui una storia che mette radici nelle comunità gay americane ai tempi dello scoppio dell’Aids, ma che si estende a un discorso sociale, esistenziale e politico.
Ed è così che, nel pensiero e nella pratica, si aprono le porte e crollano le pareti e gli schemi di una scena di interni che dalla solida pace borghese si trasforma in affettivo, disperato tentativo di cercare un rifugio rischiando di trovare un carcere.
Una storia che nella galleria romana oscilla tra due poli e due opere chiave. La prima è il raro video di Stan VanDerBeek, Site, che riprende la performance di Robert Morris nel 1964 dove l’artista, col volto coperto da una maschera disegnata da Jasper Johns, nasconde e rivela, grazie a quinte di compensato, una Carolee Schneemann nuda in posa come l’Olympia di Manet. La seconda invece raccoglie alcuni straordinari disegni giovanili di Patrick Angus, il ritrattista della scena newyorkese Anni Ottanta, sublimati da De Luca che li impagina e li interpreta in teche trasparenti.

Patrick Angus, Untitled, 1979, drawing, pencil on paper, 27,9 x 25,5 cm. Courtesy Anna Siccardi collection. Photo Giorgio Benni

Patrick Angus, Untitled, 1979, drawing, pencil on paper, 27,9 x 25,5 cm. Courtesy Anna Siccardi collection. Photo Giorgio Benni

TOMASO DE LUCA E GLI ALTRI ARTISTI

E accanto a questo ecco i nidi improvvisati ed emergenziali che Joanna Piotrowska costruisce negli angoli degli appartamenti (Frantic); le foto di A.L. Steiner,  artista, curatrice, attivista e componente della storica band femminista electro-clash Chicks on Speed; il dispenser di cibo per scimmie dello zoo di Zurigo che Gina Folly espone come una allucinata distopia nella perfezione del suo igienico minimalismo in perspex.
Nel centro di questo diario corale, le distorte maquette di De Luca, che riassumono, nella loro precaria esistenza, gli spazi e le memorie delle case dove l’artista ha vissuto, ci appaiono, più che sculture, degli oggetti misteriosi, indefinibili, quasi totem che come magneti legano tutte le opere in un solo narrare.

LA MOSTRA A PERETO

Un racconto che prosegue poi nel capitolo di Pereto dove sul bancone di ingresso una scatola raccoglie decine di foto erotiche amatoriali trovate in un sexy shop di Castro Market a San Francisco, quartiere stravolto dall’Aids che ne decimò gli abitanti. È “l’edilizia affettiva” di De Luca: gli edifici spugne delle nostre vite; i mobili che assorbono le memorie; la catastrofe che s’insinua nella crepa di un muro; le certezze liquefatte insieme al crollo di un tetto, ma anche la cinica fragilità di un sistema che in nome del Real Estate dimentica, confina, distrugge e gentrifica. E in tutto questo colpisce la sua singolare capacità di gestire una messa in scena continua che il caso ha voluto far coesistere con altre tappe nella stessa città: A week’s Notice per il Maxxi Bulgari Prize e Die Schlüssel des Schlosses alla Quadriennale. Un narrare il suo che mette radici nella queer culture per rompere continuamente le regole, accogliere altre voci, sperimentare ogni tecnica, costruire e disfare, rubando spunti a ogni segmento dell’immaginario, dalla tradizione modernista al cinema di genere, da Frank Lloyd Wright a Buster Keaton, e per creare infine un nuovo format: ricerca espansa che ci costringe a rimandi continui, generosa nelle suggestioni, e, per sua e nostra fortuna, difficile da chiudere in una definizione.

‒ Alessandra Mammì

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