Peter Benson Miller racconta Encounters II. La prima mostra virtuale dell’American Academy in Rome

È l’ultimo progetto del curatore, oggi alla guida delle relazioni internazionali della Quadriennale, per l’istituzione americana. L’intervista di Artribune è anche un confronto sull’America che sta cambiando dopo i movimenti MeToo e BLM

America, the day after. Dopo l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca e gli scorsi mesi di battaglie civili e scontri violenti, innescati dall’uccisione di George Floyd e dai moltissimi fatti analoghi che hanno scosso, in piena pandemia, il paese a stelle e strisce, è importante analizzare il ruolo della cultura per comprendere cosa è successo e i possibili scenari. Ne abbiamo parlato in una conversazione avvenuta prima di conoscere il risultato elettorale con il curatore Peter Benson Miller, in occasione della sua ultima mostra (virtuale) all’American Academy in Rome (oggi è alla guida delle relazioni internazionali della Quadriennale). Intitolata Encounters II, coinvolge una artista Julie Merehtu, star della pittura internazionale e da sempre attivista, e l’architetta koreana americana J. Meejin Yoon. Ecco cosa ci ha raccontato… 

Encounters II è la prima mostra virtuale dell’American Academy, è un appuntamento che celebra i 125 anni dell’istituzione, ed è la tua ultima mostra qui. Ci racconti come è nato questo progetto e anche la prima tappa?

I 125 anni di storia dell’American Academy in Rome sono stati segnati da due fattori fondamentali: da un lato l’incontro con la città di Roma e tutte le stratificazioni della sua storia, dall’altro lo speciale clima di collaborazione generato dal fatto che borsisti di diverse discipline si sono trovati a vivere e a lavorare insieme sul Gianicolo. In occasione di questo anniversario, ci è sembrato quindi significativo evidenziare come questa interdisciplinarietà, unita agli stimoli creativi offerti dalla città di Roma, abbia portato a importanti risultati nel campo delle arti e delle discipline umanistiche influendo in maniera fondamentale sul corso della cultura americana.

Inner wall of Höweler + Yoon’s Memorial to Enslaved Laborers at the University of Virginia Charlottesville (photograph by Meejin Yoon)

Inner wall of Höweler + Yoon’s Memorial to Enslaved Laborers at the University of Virginia Charlottesville (photograph by Meejin Yoon)

Quali temi affronta la mostra?

Nel caso di Encounters II esploriamo le affinità tra il lavoro di Julie Mehretu e J. Meejin Yoon, due figure femminili pionieristiche, di grande influenza nei rispettivi campi, che hanno attinto in maniera significativa dal contesto di Roma. Rappresentando perfettamente lo spirito collaborativo e interdisciplinare dell’Accademia, entrambe usano l’astrazione e il segno gestuale per esplorare questioni legate ai diritti e alle tematiche razziali negli Stati Uniti. Il loro approccio innovativo all’astrazione, utilizzata come un fattore di cambiamento sociale, le pone in stretta relazione con la prima parte della mostra, Encounters I, che ha ripercorso proprio lo sviluppo dell’astrazione in una serie di scambi interdisciplinari tra arte visiva, composizione musicale, letteratura, architettura attivati dall’Accademia a partire dal dopoguerra. 

Come è stato modificare un progetto previsto in presenza in un formato digitale? Hai dovuto rinunciare a qualcosa?

Bisogna dire che il formato digitale ha aperto uno sconfinato campo di nuove e interessanti opportunità, permettendoci di includere e mostrare opere che non sarebbero state disponibili per una mostra più tradizionale. Se l’esposizione digitale non permette quella relazione diretta, personale e fisica con l’opera, che avviene con le mostre che si svolgono nella Gallery dell’Accademia, questa versione rende però Encounters I e II accessibili a un pubblico più ampio. Data l’importanza del tema affrontato e la sua risonanza rispetto a quello che sta succedendo negli Stati Uniti negli ultimi sei mesi, il progetto ha forse più efficacia in questo formato piuttosto che se si fosse svolto fisicamente a Roma. 

Questo progetto è anche la risposta dell’istituzione a ciò che è accaduto negli scorsi mesi negli Stati Uniti. La ricerca degli artisti invitati ha infatti dato molta attenzione alle tensioni razziali e ai fatti di Charlottesville nel 2017. In questo strano 2020 l’America ha riattraversato quell’incubo.

L’Accademia è solidale con tutti coloro che si esprimono, manifestano e si oppongono pacificamente al razzismo e alle ingiustizie. L’istituzione è impegnata con la sua programmazione in uno sforzo attivo nei confronti delle questioni razziali e delle disuguaglianze, specialmente per quanto riguarda la complessa storia del suo Paese. Quando abbiamo ideato Encounters II, esplorando le affinità tra il lavoro di un’artista, Mehretu, e di un’architetta, Yoon, il punto di contatto più immediato sono state proprio le loro rispettive risposte agli eventi di Charlottesville, nel 2017.

Eyes of Höweler + Yoon’s Memorial to Enslaved Laborers at the University of Virginia Charlottesville (photograph by Patrick Linsey)

Eyes of Höweler + Yoon’s Memorial to Enslaved Laborers at the University of Virginia Charlottesville (photograph by Patrick Linsey)

Il sottotitolo della mostra chiarisce molto…

Si, è “The Activist Gesture” (“Il gesto attivista”), un termine che Mehretu utilizza per descrivere come nel suo lavoro la creazione di ogni segno corrisponda necessariamente a un atto politico. Come ha sottolineato Adam Weinberg, il direttore del Whitney Museum of American Art, durante una conversazione che si è svolta all’American Academy [e che ha reso più chiari i temi chiave della mostra] Mehrutu è una figura di primo piano in una generazione di artisti afroamericani che usano l’astrazione come fattore di cambiamento sociale e politico. La scelta di abbinare le sue opere con il Memorial to Enslaved Laborers dell’UVA vuole evidenziare proprio come le opere d’arte, sia che siano su tela che degli spazi pubblici monumentali, possano mostrarci efficacemente la via da seguire. 

D’altra parte, questo tipo di riflessioni sono sempre state molto importanti per te, che nel 2015 hai presentato con Robert Storr e Lyle Ashton Harris la mostra Nero su Bianco, che rifletteva sul tema dell’Afroitalianità e nel programma collaterale invitasti Alicia Garza, attivista di BLM. Cosa è cambiato secondo te da allora a livello di percezione collettiva, negli Stati Uniti e nel mondo?

Nero su Bianco fu il frutto del tentativo di guardare criticamente alla storia dell’Accademia stessa, considerando che questa si aprì ai primi borsisti afroamericani (il compositore Ulysses Kay e gli sculturi Barbara Chase-Riboud e John Rhoden) solo dopo la seconda guerra mondiale. Nella sua evoluzione la mostra è diventata un progetto più ambizioso, cogliendo l’opportunità della posizione dell’Accademia per stimolare un dibattito internazionale sulle tematiche razziali, identitarie e dell’immigrazione, tracciando anche affinità e differenze tra l’eredità postcoloniale italiana e quella della schiavitù negli Stati Uniti. Un gruppo di borsisti riuscì a invitare Alicia Garza, che ha tenuto un intervento davvero commovente, dedicato a una nuova generazione di attivismo negli Stati Uniti. Il suo impegno con Black Lives Matter è stato fondamentale per portare alla luce la violenza e l’ingiustizia a cui gli afroamericani sono stati sottoposti sistematicamente per generazioni.

Al netto della politica e delle difficoltà, l’America è stata negli ultimi anni un enorme laboratorio di idee facendo incontrare le rivendicazioni di BLM con il #MeToo e più in generale con le tematiche di genere. A tuo parere artisti e istituzioni culturali, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel mondo hanno saputo interpretare e accompagnare questi movimenti di idee? O si può fare di più?

Questa enorme attenzione mediatica ha mostrato quanto lavoro ci sia ancora da compiere su questo terreno. Gli artisti e le istituzioni culturali a livello globale devono mostrare la strada, non semplicemente a parole, ma contribuendo a costruire nuovi paradigmi, scoprire narrazioni alternative, portare alla luce i contributi di voci forti, capaci di coinvolgere l’opinione pubblica, che sono state per troppo tempo censurate da un sistema ingiusto. 

Questa mostra segna la conclusione del tuo mandato all’AAR. Ora sei impegnato in un nuovo importante incarico. Ci racconti di che si tratta?

Dalla fine di giugno ho iniziato a collaborare con la Quadriennale d’arte per la quale mi sto occupando dell’attivazione di partnership internazionali che accompagnano lo sviluppo di un’identità sempre più globale di questa istituzione, che ha da poco inaugurato la 17a edizione della mostra, purtroppo ora sospesa a causa della pandemia, curata da Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol. Nei sette anni che ho trascorso all’Accademia Americana, abbiamo sviluppato il programma di borse di studio per artisti e studiosi italiani, che rappresenta un’unicità nel panorama delle Accademie a Roma. Per questo sono particolarmente orgoglioso di essere ora entrato a far parte della Quadriennale d’arte che è proprio dedicata al sostegno e alla presentazione dei talenti emergenti italiani. Tra gli artisti invitati a partecipare a questa edizione c’è ad esempio anche Tomaso De Luca, uno dei nostri ex borsisti italiani per le arti visive. 

E poi c’è anche un’altra novità…

Sto inoltre terminando di scrivere un libro dedicato agli scambi tra gli artisti americani a Roma e i loro colleghi italiani negli anni ‘50. A quel tempo, come ora, Roma era un laboratorio creativo vitale, che produceva idee e progetti espositivi innovativi.

Santa Nastro

https://www.aarome.org/news/features/encounters-ii-activist-gesture

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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