I gorilla del Tribunale di Ravenna fanno paura? Riflessioni sulle sculture di Davide Rivalta
Piccola (e pretestuosa) polemica sull’installazione permanente di Davide Rivalta nel Tribunale di Ravenna. Un gruppo di gorilla che, secondo qualcuno, farebbero paura a grandi e piccini. Occasione buonaper riflettere sulla ricerca artistica di Rivalta, esponente di una figurazione di qualità, capace di relazionarsi in modo intenso con lo spazio.
Da diciotto anni l’atrio del Tribunale di Ravenna è abitato da una comunità di gorilla. Grandi e grossi, al centro dell’inusuale palcoscenico, nel dondolare buffo delle zampe e nell’espressione severa, disorientata. Uno di quei casi in cui usare la classica esclamazione da profani – “sembrano veri!” – è più che legittimo. L’effetto è parte integrante del gioco. Le sculture di Davide Rivalta (Bologna, 1974), da anni diffuse tra prestigiosi spazi museali, parchi, piazze, cortili, dichiarano il proprio realismo vigoroso, spingendolo oltre il limite. Animali a grandezza naturale, poderosi, pesanti, perfettamente scolpiti, con tutta la potenza di presenze vive, in carne, ossa, muscoli e peluria. Verosimili, profondamente.
Di iperrealismo stucchevole, fine a sé stesso, non si può certo parlare: la materia scultorea è affrontata al di fuori di qualunque manierismo, quasi a renderla calda, selvatica, incompiuta, dinamicamente sofferta. E a voler cavare dal nero cupo o dal bianco magmatico del bronzo, del metallo, dell’alluminio, un surplus di vita e di vigore, d’impeto e autenticità. Una figurazione che cerca l’imperfezione, la vibrazione, l’equilibrio irrisolto tra l’informe e la forma, tra riconoscibilità e mutazione.
Sono lupi, rinoceronti, bufale, asini, cavalli, aquile o falchi, che abbiamo visto ad esempio sulle maestose scalinate della Galleria Nazionale, fra le terrazze e le aree verdi del Forte Belvedere di Firenze, sotto i portici del Palazzo dl Quirinale, fra le strade di Neuchâtel, in Svizzera, nel giardino del Palazzo della Triennale, a Milano, o sul prato intorno a Sant’Apollinare in Classe e in altre sedi di Ravenna. E dal 2002, sempre a Ravenna, li troviamo anche questo chiostro, nel cuore del Palazzo di Giustizia.
IL POST POLEMICO. TRA CRITICA ARTISTICA E POLITICA MILITANTE
Succede però che qualcuno si desti oggi, all’improvviso, e senta di doversi ribellare. Quei gorilla disturbano. Generano inquietudine nei passanti. Toglierli è l’unica soluzione. È l’opinione dell’architetto Angelo Barboni, qui voce della Lista per Ravenna, storica lista civica d’opposizione, che nel Comune romagnolo a guida PD – con il giovanissimo sindaco Michele de Pascale eletto nel 2016 – è rappresentata dal consigliere di lungo corso Alvaro Ancisi (ex Dc, centrista convinto, col suo movimento già alleato del centrodestra).
Lo sfogo compare su Facebook, in un post dal titolo “L’uomo nero”, che esordisce riconoscendo dignità di opere d’arte alle sculture d Rivalta (meno male): “realizzazioni artistiche notevoli”, ammette l’architetto, ma la loro ubicazione non lo convince. Meglio sarebbero state in “una Biennale d’Arte, una piazza d’ armi o un parco, dove si trovano in effetti altre sculture del medesimo artista”, mentre “spaventosa” (addirittura) apparirebbe la collocazione nel chiostro di un tribunale, “per il luogo in sé e per come queste figure incombano su chi è stato chiamato, a qualsiasi titolo, a presentarsi lì. La constatazione che tutto l’insieme angosci anche i bambini non è gratuita, io stesso ho visto bimbi spaventarsi e piangere in braccio a qualche madre che camminava in fretta e a testa bassa, per non farsi pure lei intimorire dalle figure minacciose, mentre le attraversava per entrare”.
Poi un’analisi del Palazzo, progettato dall’Architetto Pierluigi Spadolini, fratello del più celebre ex Ministro Giovanni, e una breve dissertazione sul tema delle architetture seriali nelle periferie: “La serialità produce quindi questi edifici grigi e tristi, inquietanti già di loro nei labirinti interni privi di ogni logica e razionalità che disorganizzano le entrate e producono involontariamente la dislocazione disomogenea di tutti gli uffici del nostro e dei Tribunali similari”. Quindi, la chiosa sferzante: “E qui, come tocco finale di un incubo, ci sono questi enormi gorilla di Davide Rivalta, artista famoso per rendere l’essenza agli animali che riproduce a grandezza naturale. In questo caso però li ha creati imponenti quanto minacciosi, espressione di forza bruta che schiaccia e annulla il povero avventore”. Insomma, un’aggressione vera e propria, che spaventa gli adulti e fa piangere i bambini.
VALORE SIMBOLICO E QUALITÀ FORMALE
Fa sorridere questo appassionato appello, incredibilmente tardivo, che giunge vent’anni dopo l’installazione dell’opera, quasi – verrebbe da pensare, qualora fossimo maliziosi – per il gusto di tirar fuori una polemica e fare un po’ di rumore. Non che non sembri convinto Barboni, in questa sua evidente difesa di un’arte rassicurante, confortante, piacevole, ben educata. E qui sta il problema. Il solito equivoco nefasto, per il quale solo ciò che è didascalico, rassicurante, magari retorico, con caratteristiche di gradevolezza e comprensibilità, può essere accettato e metabolizzato. Soprattutto nello spazio pubblico.
Interessante, in questo caso, come anche una pratica figurativa, tradizionale nella scelta del linguaggio e dei materiali, concentrata su un’iconografia arcaica, nell’evocazione dolce (e però anche feroce) della natura, abbia destato una simile reazione. La prova provata di quanto le opere di Rivalta siano lontane da un mimetismo scontato e da un’idea decorativa dell’arte: animali perduti e straniati tra monumenti, spazi urbani, giardini storici, a catturare lo sguardo come magneti, seducendo e insieme perturbando. Un’intenzione che, come sempre dovrebbe accadere, si trasfonde direttamente nella pelle e nei contorni dell’immagine, grazie a un meditato processo di formalizzazione, con quello stare sul bordo, sempre, tra ciò che è riprodotto e ciò che è disfatto, tra ciò che si consuma e ciò che permane, tra il soggetto riconosciuto e quello imploso, negato.
Ovviamente, da parte nostra, ci auguriamo – anzi, ne siamo certi – che nessun seguito avrà la pur legittima polemica sollevata da Barboni e che le belle sculture di Rivalta restino là, con la loro combinazione di ironia, inquietudine ed energia tragica, di realismo poetico e di narrazione surreale. A ricordare quel cortocircuito insuperabile tra la purezza della nostra dimensione primitiva, bestiale, e l’impalcatura della legge, dell’etica, della civiltà, che l’architettura forense incarna e tramuta in spazio da attraversare.
– Helga Marsala
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