Lorenzo Quinn a Palermo: le mani sulla Cattedrale e l’arte (pubblica) del banale
Ma cos’avranno di speciale le enormi mani bianche dello scultore Lorenzo Quinn, figlio del noto attore americano? Continuiamo a non capirlo e a chiederci come mai grandi città storiche italiane continuino a ospitarle. A Palermo una nuova apparizione. Ed eccoci a ribadire perché, secondo noi, non si tratta di arte pubblica degna di questo nome.
In Sicilia l’arte pubblica non esiste. L’anno zero, o quasi. Investimenti, bandi, acquisizioni, produzioni sostenute da istituzioni (qualche eccezione è arrivata da realtà private come la torinese Fondazione Merz o la Fondazione Terzo Pilastro di Roma), riflessioni corali sull’uso dello spazio urbano, parchi di scultura, progetti di riqualificazione di aree periferiche, o anche solo piccoli ma significativi interventi nel centro storico, per continuare a ragionare intorno al tema della memoria, dell’appartenenza, delle simbologie, dei luoghi e dei codici condivisi. Niente di niente.
E verrebbe da dire, al limite, meglio così. Perché quelle poche volte che qualcosa spunta, sono più gli esempi desolanti, imbarazzanti, nel migliore dei casi inadeguati, che quelli azzeccati davvero. Nessuna idea del senso e del modo, di quali siano le professionalità da coinvolgere e di quanto rispetto ci voglia per chi, passando, contempla, valuta, si pone domande, apprende registri, modelli, riferimenti. Proporre roba scadente, nei termini di intervento pubblico vagliato da un’amministrazione, che impatto ha su un pubblico medio, naturalmente non in possesso di conoscenze e strumenti specifici?
L’obiezione solita sulla soggettività del giudizio suona come il più scemo dei cliché: se è vero che a parlare di scienza in tv si invita Piero Angela e non Eleonora Brigliadori, allo stesso modo a discutere di opere d’arte in spazi pubblici (chiusi o all’aperto che siano) dovrebbero esserci figure competenti. Non certo, come dovunque accade, il direttore convito dal solito critico televisivo, il dirigente che apprezza l’artista “X”, quotato sulla più commerciale delle ribalte, o l’assessore zelante sulla base del proprio gusto (o interesse) personale. Un vizio italiano che non muore.
DA FIRENZE A PALERMO, IL DONO DI LORENZO QUINN
E veniamo alle ultime vicende del capoluogo siciliano. Mentre ancora impazza la polemica per il criticatissimo restyling dell’area antistante Palazzo d’Orleans, sede della Presidenza della Regione, ecco che sul sagrato della strepitosa Cattedrale arabo-normanna di Palermo, lungo l’arteria centrale di Corso Vittorio Emanuele, spuntano due gigantesche mani bianche a conchetta (o a “coppino”, per dirla alla palermitana), da cui sboccia un alberello: il tutto adagiato su un fazzoletto di terra, dentro una poderosa aiuola rialzata. L’opera, dal titolo Give (“Dono”), era stata presentata la scorsa estate a Firenze, all’interno del meraviglioso Giardino di Boboli. È ancora lui, lo scultore Lorenzo Quinn, marchio di fabbrica inconfondibile e un’imperterrita volontà di conquista di spazi urbani prestigiosi, con imponenti presenze en plein air, da sbatterci la faccia per forza e senza scampo: mani bianche possenti, sempre e solo mani, enormi manufatti con cui imbastire un teatro dell’ovvio e del banale, in certi casi aggredendo contesti dal forte valore storico-artistico (e qui, sul ruolo delle Soprintendenze, ci sarebbe da farsi più di una domanda).
Uno spettacolo, ricordiamolo, a favore di un pubblico non pagante, dal momento che l’opera in strada non la scegli e ci inciampi per soverchieria: motivo per cui l’attenzione dovrebbe essere altissima. Inserire un elemento estraneo – ancor più se gigantesco – nel mezzo di una piazza, su un muro, lungo una via, è un gesto importante, delicato, non un gioco di pupazzetti e figurine, come il trend più attuale sembrerebbe indicare (il caso della Street Art compulsiva e illustrativa, ormai, assomiglia a una deriva).
RICORDANDO VENEZIA. ARTE COME AL LUNAPARK
Lorenzo Quinn è evidentemente convinto che queste mani oversize, feticci sottratti a un misterioso Gulliver metropolitano, siano portatrici di messaggi essenziali, tra impatto spettacolare e connessioni elementari: dalle due braccia che nel 2017 fendevano le acque del Canal Grande, come se un eroico Loch Ness Monster in trasferta affiorasse dagli abissi per afferrare e sostenere uno dei tanti palazzi storici veneziani, minacciati dall’alta marea, a quelle che a Venezia tornavano (il famoso “luogo del delitto”) due anni dopo, stavolta in numero di dodici, alte 15 metri ciascuna, piantate a terra e combinate a coppie, a formare un monumentale ponte (nella città dei ponti: geniale) sospeso tra due banchine fuori dall’Arsenale. Ogni incastro di mani rappresentava, certo con le migliori intenzioni, uno dei valori universali individuati dall’artista: amicizia, saggezza, aiuto, fede, speranza, amore. Il trionfo della retorica, veicolato col più impattante degli escamotage.
Ora, ricordando con nostalgia la discreta “Mano” burlona, personaggio cult della mitica Famiglia Addams, ci chiediamo se sarà almeno l’ironia a salvarci da cotanta melassa e dalla vista di oggetti così invasivi, fuori posto, nella loro leziosa presenza scenica: giocattoloni plasticosi dalla fattura approssimativa, catapultati qui e ora dalla scenografia di uno studio televisivo anni ‘90, dalla vetrina di un negozio di gadget o da un parco divertimenti per adulti.
Quest’idea diffusa di un’arte a misura di Disneyland, per un pubblico desideroso di sgranare gli occhi dinanzi a cose colossali, bizzarre, magari veicolo di un messaggio morale, è un fenomeno così indigesto e dannoso da diventare imperdonabile. Tutto clamorosamente distante dalla complessa ricerca di forma e di senso, che fra le vie tortuose dell’indagine artistica ed estetica si nutre di conflitti ed interrogativi. Una grande fatica, altro che pupazzi.
STEREOTIPI E MESSAGGI. COME UNA PUBBLICITÀ
L’affilata – si fa per dire – retorica di Quinn aveva puntato tutto sul valore positivo e umanitario dell’opera Give: “nella vita per ricevere bisogna dare”, aveva detto in occasione della presentazione fiorentina, a illuminare di saggezza la platea. E ancora: “il mio vuole essere un messaggio di speranza. La mano dell’uomo è mia, quella della donna è di una modella, la loro unione rappresenta l’umanità. Il bianco è il colore della purezza e dell’innocenza, della colomba e della pace. Per questo ho scelto di offrire un ulivo come messaggio universale”. Vocazione pedagogica e assetto moraleggiante, insieme a quella voglia di appiattire l’immagine sul piano di simboli scontati, subito esauriti in sé stessi e nel più banale dei significati. Arte che risolve e rassicura, illustrando, semplificando, raccontando favolette buone. L’equivoco è comune e va tranciato di netto: l’arte come virtuoso dispenser, che esiste per confezionare e distribuire messaggi, arte non è. È catechismo, è un libretto per istruzioni, è un breviario parrocchiale o un manualetto tascabile per hobbisti. Una comfort zone, fra la tristezza e la noia.
Intanto, sui social, insieme ai post entusiastici di chi si scioglie nel mare di miele catto-decorativo, non mancano le battute e gli accostamenti divertenti, tra gente basita, dubbiosa e una quantità di addetti ai lavori sinceramente turbati. C’è chi ha tirato fuori la grossa mano scolpita, elemento scenografico del talent televisivo “The Voice”; chi ha favorito il parallelo con certe immagini convenzionali fornite sui siti di Stock Photography per usi commerciali o comunicativi; e chi si è ricordato persino del suo posacenere a forma di mano a conchetta, rivalutandolo come opera d’arte funzionale.
E come non ricordarsi dei vecchi spot Valfrutta, con il claim “La natura di prima mano”, tra ortaggi, barattoli di piselli e passate di pomodoro in bottiglia, sbocciati da fecondissime e amorevoli mani? Un gioco che l’azienda utilizzò anche per una campagna a sfondo ecologico (Valfrutta per la terra, 2012): pale eoliche e germogli in fiore, di nuovo custoditi nel palmo di una mano.
In effetti, se un’opera come questa funziona, a livello di gradimento di massa, è proprio perché costruita secondo certi stereotipi pubblicitari e illustrativi, fra i più immediati, comprensibili, tradizionali. C’è dietro un ragionamento, altroché. Peccato che con l’arte c’entri poco o nulla. La manona bianca che invade lo spazio urbano, oltre a giocare con l’idea fiabesca del gigante buono e del messaggio positivo, che irrompono per imporre la legge del Bene, prova ad acchiappare il fruitore distratto con simbologie a una dimensione, facili, veloci, efficaci. Perfette per il più convenzionale degli spot.
ORGOGLIO ISTITUZIONALE
Non ha alcuna responsabilità l’artista, che fa il lavoro suo, onestamente, credendoci e difendendolo. Il punto è continuare a chiedersi perché l’ennesima amministrazione pubblica abbia avallato un’operazione di questo tipo, presentata con tanto di fanfare. Nel caso di Palermo, poi, c’è un Sindaco che al contemporaneo di qualità ha anche mostrato interesse ed attenzione. E invece tutti orgogliosi, a partire proprio da Leoluca Orlando: “Grazie a ‘Give’”, ha dichiarato il Primo Cittadino, “confermiamo che bellezza, etica ed estetica sono indissolubilmente collegate, che l’una senza le altre non ha ragione di esistere o è vuota. In questo Natale certamente diverso dagli altri, con questo ‘dono’ si rafforza la collaborazione e la sintonia tra Comune e Curia con un’opera che è in grande sintonia col cammino della città, delle sue istituzioni, della sua società civile”.
La scultura di Quinn a Palermo nasce dalla collaborazione tra l’artista, la società Once srl, il Comune di Palermo e l’Arcidiocesi guidata da Monsignor Lorefice. E se a Firenze è stato il Direttore degli Uffizi Eike Schmidt a volerne l’esposizione a Boboli, ci si domanda come sia possibile che figure di tale spessore caschino in simili trappole populiste, più che popolari. La risposta probabilmente è solo una, al netto di possibili contatti personali, simpatie, doveri di pubbliche relazioni: l’arte contemporanea è una disciplina con delle specificità importanti, e l’esperienza, lo sguardo internazionale, la conoscenza storica, la militanza critica all’interno di un art system rigoroso, non sono materia di tutti. Essere affermati storici dell’arte specializzati nel Rinascimento, studiosi di letteratura o uomini politici di cultura, non equivale a capirci qualcosa.
Grazie al cielo, la scultura palermitana è solo temporanea. Per tutto l’inverno resterà al suo posto, di fronte la Cattedrale, fino al 30 marzo 2021. Il dono sarà, finalmente, quello dello smontaggio di primavera.
– Helga Marsala
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