Il cortocircuito dell’arte contemporanea in mostra a Roma
È stata prorogata fino al 15 gennaio la mostra collettiva di Spazio In Situ, l’artist run space di Tor Bella Monaca che dal 2016 sperimenta, propone e valorizza l’operato di artisti emergenti con uno sguardo che va oltre i confini nazionali. La mostra a cura di Porter Ducrist si focalizza su quella eterna tensione tra il materiale e l’immateriale, in cui l’arte si dispiega nei meandri della digitalizzazione.
“L’opera dematerializzata è traslocata in un non-luogo, sommando un calco sul piano della raffigurazione del reale, come se l’arte dovesse illustrare la copia della copia di se stessa, essendo, quest’ultima, una rappresentazione del reale, una sorta di superamento ascendente della realtà”, così parla il curatore Porter Ducrist nel suo testo critico per , la mostra che vede protagonisti Sveva Angeletti, Alessandra Cecchini, Christophe Constantin, Francesca Cornacchini, Marco De Rosa, Federica Di Pietrantonio, Chiara Fantaccione, Roberta Folliero, Andrea Frosolini e Guendalina Urbani.
GLI ARTISTI IN MOSTRA A ROMA
Tra le pieghe dell’espressione “il naufragar m’è dolce in questo mare” usata da Leopardi per descrivere uno smarrimento interiore ‒ e universale ‒, è possibile ritrovare lo squilibrio dato dalla destrutturazione del discorso lineare su cui si fonda l’arte, e dal cortocircuito tra il materiale e l’immateriale nella vasta landa della digitalizzazione. A navigare nell’incognito è proprio il pubblico, attratto dal turbinio dissonante delle opere esposte, incrociando lo sguardo di due telecamere realizzate da Chiara Fantaccione che scrutano ogni movimento per poi perdersi, amorevolmente, l’uno nell’obiettivo dell’altro. Nella disperata ricerca di una rotta da seguire si viene disorientati dal suono dell’allarme di Marco De Rosa. Come una Sirena in mare aperto, confonde e deconcentra chiunque si trovi nella sua onda sonora.
Il leggero soffio di vento di Roberta Folliero agita un drappo di stoffa azzurra che, come una vela, direziona verso nuove rotte gli animi impavidi. Scampoli di cielo fanno capolino in un angolo, quasi a contenere quell’infinità bluastra in un piccolo quadrato circoscritto che porta la firma di Alessandra Cecchini. Approdando in una dimensione terrena ‒ ma non meno ambigua ‒, le architetture appena accennate di Francesca Cornacchini, contenenti simboli ed evocazioni urbane, ci trasportano in una dimensione onirica.
DAL DIGITALE AL REALE E VICEVERSA
Le opere “dialogano tra di loro fluttuando nell’ambiente, immergendo lo spettatore in un grande limbo, alla ricerca ossessiva di un filo logico”. Ricalcando le parole del curatore si evince un caos apparente in cui lo spazio stesso si trasforma, ridisegnato sotto la voce-guida dell’opera di Sveva Angeletti. L’incertezza e l’instabilità suscitata dall’attraversamento di un luogo non definito fa tremare anche i viaggiatori più esperti, come il bicchiere pericolante di Guendalina Urbani. È proprio in questo grande limbo dove il digitale si incontra e si scontra con il reale che troviamo l’opera di Federica Di Pietrantonio, la quale trasferisce pittoricamente il dinamismo e la tridimensionalità di una scritta web nello spazio, e nella solida parete piastrellata di Andrea Frosolini che si smaterializza in un cumulo di pixel riflettendosi in una piccola pozza d’acqua. Infine, l’accento posto da Christophe Constantin sul suo lavoro non-finito guarda all’essenzialità dell’oggetto declinandolo da funzionale a installativo.
‒ Valentina Muzi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati