Il virtuale analogico, la realtà virtuale e il postvirtuale nell’arte di Samantha Torrisi
I dipinti di Samantha Torrisi mettono in scena una virtualizzazione dello spazio che ricorda le logiche della realtà virtuale e le ambientazioni dei videogiochi.
A ben vedere, il virtuale c’è sempre stato. Prima della realtà virtuale c’era quello che potremmo definire il virtuale analogico. C’erano i romanzi, i film, i quadri, i libri pop-up, i visori di immagini stereoscopiche, i View-Master. Ma più di tutto i romanzi, perché lasciavano e lasciano più spazio all’immaginazione, in modo che con lo stesso referente non ci fosse un virtuale uguale a un altro: la casa di Hansel e Gretel immaginata da un lettore era diversa da quella visualizzata da qualsiasi altro lettore nel mondo. Il virtuale analogico, quindi, ha un carattere privato, solitario, che porta ciascuno a elaborare le proprie fantasticherie, il virtuale virtuale, quello digitale, è tendenzialmente più democratico, perché in certi casi, nei mondi virtuali, per esempio, può essere condiviso con altri anche in tempo reale.
Due tipi di virtuale, quindi, che non si sono alternati, giacché le due tipologie convivono abbastanza civilmente, senza pestarsi i piedi a vicenda. Entrambi coesistono: i libri e i quadri non li critica nessuno, mentre alla realtà virtuale si rimprovera continuamente la volontà di sostituirsi alla vita vera, con un atto di superbia che non viene ravvisato altrove. E allora ci si scatena con tutti i discorsi sul tatto e l’olfatto che non vengono appagati al di là dello schermo, puntando il dito contro la tecnologia che osa imitare la vita.
Ci si concentra sempre, o spesso, sulla dicotomia tra virtuale e vita vera, magari cercando di capire come quest’ultima possa inglobare la rappresentazione digitale del mondo fisico, ma più raramente si punta l’attenzione sul modo in cui il virtuale influenza l’arte che rimane aderente a una concezione analogica.
LA PITTURA “VIRTUALE” DI SAMANTHA TORRISI
Un’interessante espressione di questo discorso si trova nei dipinti di Samantha Torrisi (Catania, 1977), un’artista che sa maneggiare con grandissima maestria l’idea di virtualità. Lasciamo per un attimo da parte le considerazioni di base che si possono fare sulla pittura di Torrisi (che nei prossimi mesi sarà di scena in due collettive, alla The Project Gallery di Atene e a Taormina), diamo per scontato che i suoi riferimenti sono l’inconsistenza materica tipica di certi videogame dei primi anni del Ventunesimo secolo, tra cui Silent Hill e certi survival horror giapponesi legati al filone di film come The Ring. Non dilunghiamoci qui sulle ascendenze pittoriche delle nebbioline dei suoi quadri, che andando indietro nel tempo potrebbero portare anche nei territori dell’Impressionismo. Puntiamo invece sulla percezione prospettica di quei dipinti, che smontano letteralmente lo spazio rendendolo aereo, sminuzzandolo in minuscole particelle, come avviene nella fisica quantistica.
SOGGETTI E PROSPETTIVE
Questa scelta di Samantha Torrisi porta a un’idea molto profonda di virtualizzazione dello spazio: l’artista destruttura ogni ambiente, ogni paesaggio, lo priva di volume e di profondità, e con questa sua attitudine riesce a disorientare tutte le leggi della fisica, in primis la legge di gravità. Certe persone che provano il visore per la realtà virtuale hanno dei giramenti di testa, perdono le coordinate, hanno l’impressione di brancolare nel buio, di non avere riferimenti. I dipinti della Torrisi non provocano giramenti di testa, però obbligano a una continua messa a fuoco, dato che l’artista riesce a creare una sorta di prospettiva mobile, riesce a suggerire uno stato di continuo slittamento dello spazio, che pare muoversi all’interno del quadro. Non si muovono le cose, ma tutto il contesto. Ci si rende conto di ciò quando si osservano con attenzione le figure d’ombra che si stagliano nei dipinti. Erroneamente si potrebbe pensare che il focus sia su quelle figure, che in realtà servono soltanto come riferimenti, servono a calibrare lo sguardo su una prospettiva sfuggente, che si muove in tutte le direzioni, in una sorta di virtualizzazione della tela.
L’ARTE POSTVIRTUALE DI SAMANTHA TORRISI
Inizialmente, osservando i quadri di Samantha Torrisi si guarda il volto dissolto, il corpo in polvere, la sagoma inconsistente di un fantasmatico manichino, e si cerca di collocarla nello spazio. Si ha l’impressione di riuscirci, e si pensa allora di poter immaginare uno schermo immaginario tra il davanti e il dietro, semplificando drasticamente lo spazio del dipinto, riducendolo a due semplici dimensioni. Il problema è che dopo un po’ ci si rende conto che la posizione individuata non funziona per niente, che la messa a fuoco richiede ancora maggiore attenzione, e allora ci si sforza di tarare la visione, come quando si regola l’obiettivo della macchina fotografica, cambiando anche l’apertura del diaframma, ma alla lunga si capisce che in quelle visioni non c’è modo di far combaciare tutti i valori. Prevale il senso di disorientamento, il senso di instabilità, in una parola il virtuale. Un virtuale che non imita minimamente quello dei visori, un virtuale nativo della pittura, che riproduce in parallelo certi meccanismi familiari a chi è abituato al virtuale tecnologico. I simulacri di nebbia, le sagome di fumo dei quadri della Torrisi paiono fluttuare sulla tela, nuotare in uno spazio liquido come ologrammi solo parzialmente incarnati, bloccati a metà strada nel loro farsi figure umane, ologrammi mai nati, rimasti allo stato spirituale. E intanto, mentre si osservano i quadri, cercando un porto sicuro per gli occhi in questi spazi instabili e fluttuanti, il tempo passa, a regalare un’ulteriore dimensione ai dipinti, isolati in una loro personalissima virtualità. E allora tutte le categorie vengono scardinate: Samantha Torrisi rivela finalmente il suo gioco, che in apparenza consiste nel plasmare in forma aerea suggestioni ispirate dall’immaginario dei film e dei videogame. Solo in apparenza, perché quello è solo poco più che uno specchietto per le allodole, un efficace quanto facile travestimento. La verità sta oltre, molto oltre il presunto schermo mobile che si percepisce nei suoi dipinti, dietro le figure di fumo: è un’idea di inafferrabile inconsistenza che coniuga tutti i tipi di virtuale che vi possono venire in mente: il virtuale di Matrix, quello di Caillebotte, il virtuale dei romanzi, quello delle atmosfere leonardesche e lo straniamento prospettico dei visori. Un’idea che forse, prima che sfugga di nuovo, si potrebbe definire postvirtuale.
‒ Mario Gerosa
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