Fase Tre (XIV). La reazione dell’arte
Come stanno reagendo gli artisti alla eccezionale condizione che stiamo vivendo? E qual è il compito che spetta loro? Christian Caliandro torna a occuparsi di Fase Tre.
Nel suo editoriale pubblicato su Artribune Magazine n. 58, Massimiliano Tonelli scrive a proposito di questo periodo: “Ovvio che ci sono state eccezioni, però in un anno in cui abbiamo avuto la più grande emergenza planetaria dai tempi delle Guerre Mondiali e il movimento Black Lives Matter, i contenuti per produrre opere d’arte indimenticabili e capaci di interpretare e trasmettere al futuro la temperie dei tempi c’erano in abbondanza. Quanti artisti ci hanno lavorato su? Quanti invece hanno deciso di astenersi? Nessuno si aspetta un interventismo artistico dei vecchi tempi delle avanguardie, intendiamoci. E nessuno vuole artisti che registrino il presente o ancor meno l’attualità, come se fossero reporter di qualche tg o didascalici commentatori del presente” (Che fine hanno fatto gli artisti?, “Artribune Magazine”, n. 58, gennaio-febbraio 2021, p. 12).
Devo dire che anche io, nel corso di quest’anno, ho avuto un’impressione analoga. Mese dopo mese, ho atteso opere e progetti che rappresentassero davvero una risposta adeguata a questi tempi straordinari: mi aspettavo (sbagliando, probabilmente) idee e forme che mi facessero rizzare i capelli sulla testa, commoventi ed entusiasmanti per la loro novità, esplosivi nella loro capacità di scorgere e catturare gli elementi radicali che stiamo sperimentando ogni giorno… Ma, con qualche eccezione, questi lavori formidabili finora non si sono materializzati – o almeno, io non li ho visti né intravisti.
GLI ARTISTI E IL PRESENTE
Al di là delle questioni individuali o generazionali, credo che al centro ci sia proprio quella “sottrazione di senso” che stiamo sperimentando da ormai lungo tempo, in molteplici forme. Anche l’arte fa ovviamente i conti con questo processo strano e debilitante: le strutture del passato recente non reggono più, non sono più adeguate per veicolare il contenuto nuovo. Solo che, per raggiungere la struttura attuale, occorre compiere una specie di salto (molto faticoso), e al tempo stesso fare una serie di rinunce.
Allora, è ovvio che la tentazione di aspettare, di rinchiudersi attendendo che la normalità finalmente ritorni e si ristabilisca, è molto forte: solo che, come abbiamo detto spesso, non funziona così – in nessun campo, e soprattutto in quello dell’arte contemporanea. L’unica strada francamente mi sembra quella di affrontare le condizioni che stiamo attraversando, riflettendo anche sulla natura dell’opera, oltre che su come essa si rivolge al presente.
È vero infatti che non ha senso per gli artisti (ma non lo aveva anche prima, se è per questo) lavorare esplicitamente sui “temi” dell’attualità: è un approccio abbastanza stucchevole, e non ci sono molti capolavori venuti fuori da questo tipo di strategia. La disposizione più feconda credo sia quella che reagisce al contesto – per cui nell’opera quegli stessi temi non sono trattati, ma emergono naturalmente, costituiscono il suo linguaggio e il modo in cui si esprime, in cui si relaziona con l’altro.
È anche per questo che limitare tutta la discussione all’apertura o alla chiusura degli spazi istituzionali esclude forse gli aspetti più rilevanti, perché significa ancora una volta concentrarsi sui contenitori. Qual è infatti il piano, riprendere con le medesime mostre, e magari con le medesime opere, nel momento in cui i musei verranno riaperti stabilmente ovunque?
“Il rischio concreto è quello di accontentarsi, di riproporre esattamente quello che c’era prima – solo, un po’ più scadente, un po’ più triste, un po’ più stanco. E totalmente decorativo”.
È difficile, certo, ma agli artisti (e ai critici, ai curatori, ai galleristi) spetta in questo momento un compito che mi pare difficilmente eludibile: ripensare radicalmente i modi in cui l’opera funziona e si presenta. Chiedere per esempio al pubblico di non essere più tale, e di accompagnare consapevolmente questa evoluzione, di pretendere una concezione e una pratica dell’arte realmente basata sullo scambio, sul rapporto.
Sono sicuro che uno scarto del genere sia già avvenuto e stia già avvenendo nelle riflessioni degli autori migliori nel nostro Paese, appartenenti a più generazioni: ognuno di loro, a modo suo, sta immaginando un futuro che è in procinto di diventare presente. È una trasformazione quella che stiamo vivendo, e come sempre non è qualcosa di liscio né immediato.
Ma l’alternativa quale sarebbe? Il rischio concreto, infatti, è quello molto semplicemente di accontentarsi, di riproporre esattamente quello che c’era prima – solo, un po’ più scadente, un po’ più triste, un po’ più stanco. E totalmente decorativo.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
Fase Tre (XII). Il punto di rottura
Fase Tre (XIII). Consumo e arte contemporanea
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