Un JR dopo l’altro. L’arte nello spazio pubblico al tempo del Coronavirus
La Ferita – The Wound, realizzata dall’artista francese JR sulla facciata di Palazzo Strozzi a Firenze, rimette al centro del dibattito pubblico la chiusura dei luoghi della cultura. Sollevando al contempo alcune riflessioni sulla natura site specific dell’opera, sulla spettacolarità dell’arte socialmente impegnata e sulle responsabilità dell’immaginazione del futuro.
Quando un’opera d’arte può dirsi site specific? A chi spetta la responsabilità delle politiche di accessibilità dei musei (ma, più in generale, dei luoghi della cultura) e dell’immaginazione del futuro? Dove si colloca il confine tra un’arte socialmente impegnata e l’appropriazione personalizzata delle istanze comunitarie? Questi sono soltanto alcuni degli interrogativi che la nuovissima, spettacolare installazione dello street artist francese JR a Firenze suscita e ispira. Realizzata – grazie al coinvolgimento di undici operai impegnati per circa due mesi – tramite un’ottantina di stampe fotografiche su pannelli di alluminio, l’opera costituisce un fotomontaggio anamorfico di proporzioni monumentali attraverso il quale i passanti di piazza Strozzi sono invitati a “sbirciare” all’interno del palazzo. In questo modo l’edificio rinascimentale, chiuso al pubblico al pari di tutti i luoghi della cultura in tempo di pandemia, “rivela” un’immaginifica sala espositiva capace di raccogliere alcuni tra i capolavori della storia dell’arte fiorentina (e non solo), come Il ratto delle Sabine di Giambologna, la Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli. Poco più in alto, una scala fittizia conduce a una riproduzione della biblioteca dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, realmente ospitata negli spazi del palazzo. Nelle intenzioni dell’artista e del curatore Arturo Galansino, il lavoro rappresenta una “nuova opera site specific” che “propone una diretta e suggestiva riflessione sull’accessibilità non solo a Palazzo Strozzi ma a tutti i luoghi della cultura nell’epoca del Covid-19”.
NON È TUTTO ORO CIÒ CHE È SITE SPECIFIC
E proprio la martellante enfasi posta dalla comunicazione del progetto sulla specificità del luogo di installazione è uno dei primi aspetti a esporre La Ferita ad alcune criticità. Certo, il “mantra” del site specific non è qualcosa che coinvolge soltanto l’ufficio stampa di Palazzo Strozzi: al contrario, nei decenni e in particolare negli ultimi anni è andata diffondendosi la tendenza a considerare l’arte esplicitamente progettata per un contesto specifico in qualche modo “di serie A”, in virtù di una sua presunta natura più originale, più innovativa o più impegnata. In una parola, “più” (o migliore) della tradizionale arte movimentabile. Al di là, però, del fatto che simili considerazioni rischiano di basarsi niente di più che su un pregiudizio critico – che finisce, ad esempio, per escludere il valore estetico e politico di opere che intrattengono relazioni di dissonanza, indifferenza o persino conflitto rispetto al contesto in cui si trovano a essere esposte –, il problema principale sorge da un comune equivoco del significato dell’espressione “site specific”. Creare appositamente un progetto artistico per un determinato luogo non è sufficiente per guadagnarsi i gradi della specificità del contesto, come dimostrano le moltissime sculture che, tappezzando piazze, strade e rotonde, ambiscono al più allo status – seppur dignitoso – di decorazioni urbane. All’opposto, come ci insegna la critica coreana Miwon Kwon nel suo ormai classico Un luogo dopo l’altro. Arte site specific e identità locazionale (recentemente pubblicato in Italia da Postmedia Books con prefazione di Francesca Guerisoli), l’arte site specific è inscindibilmente connessa al contesto architettonico, politico, sociale, istituzionale e culturale per cui è concepita.
Un contesto che, così connotato, difficilmente può essere sostituito con uno differente. Di volta in volta colpevolmente confusa con l’arte pubblica o con quella partecipativa (caratteristiche possibili ma non indispensabili per l’arte contestualmente connotata), l’arte site specific impone un’analisi della validità del progetto artistico che non tenga esclusivamente conto di parametri estetici, ma si estenda anche a una considerazione della composizione della comunità invitata/tenuta a confrontarsi con l’opera, delle condizioni socio-economiche di tale comunità, delle politiche delle istituzioni coinvolte nella progettazione e infine dei rapporti di potere che intercorrono tra i vari attori.
IL PARADOSSO DELLA STREET ART ISTITUZIONALIZZATA
Inevitabilmente, di fronte a un’idea così definita di site specificity, l’abitudine di JR a confrontarsi in rapida successione con contesti – non solo geografici – tra i più disparati rischia di apparire contraddittoria. Impegnato senza apparenti distinzioni ad applicare i suoi collage fotografici a Rio de Janeiro, Parigi, Baden Baden, Melbourne o Firenze, il francese ha volutamente costruito per sé negli anni un’immagine di artista talmente peripatetico da poter affermare di “avere a disposizione la più vasta galleria al mondo”, ovvero il mondo stesso. Ora, se naturalmente l’interesse per l’azione artistica al di fuori dalle pareti dei musei non è una novità nella storia dell’arte contemporanea e anzi contraddistingue un certo approccio operativo pensato come alternativo (se non antitetico) al sistema istituzionale, il problema sorge nel momento in cui tali azioni diventano invece istituzionalizzate. A maggior ragione se si pensa che una delle principali rivendicazioni di quel fenomeno vastissimo e per certi versi indefinito che è la Street Art è proprio la-libertà-creativa-a-tutti-i-costi, ben oltre i confini della legalità. Aggiungendo poi i dubbi che legittimamente sorgono quando si prova a immaginare quale grado di approfondimento possa raggiungere in così poco tempo la relazione tra lo street artist e i contesti in cui di volta in volta interviene, non può purtroppo che rimanere una sensazione dolceamara di “favore delle istituzioni” verso le opere di JR che, se certamente non basta a comprometterne il valore, quantomeno rischia di appiattirne l’efficacia. Questo perché, soprattutto quando si colonizza lo spazio pubblico – ovvero, ricordiamolo, lo spazio di tutti –, un’arte istituzionalizzata finisce per diventare, nel peggiore dei casi, un’affermazione degli interessi, delle gerarchie e dei privilegi del Potere oppure, nel migliore, una ricerca di consenso. In ogni caso, si tratta di un’opportunità sprecata, perché l’“invasione” artistica nella sfera pubblica, in particolare in un momento in cui sempre meno persone possono percorrere le strade e le piazze delle città, poteva fornire lo spunto per generare un conflitto e aprire un dibattito serio su quelle che, nei fatti e non nelle illusioni, sono le condizioni di accessibilità della nostra cultura, anziché limitarsi a ribadire in modo lapalissiano quanto la situazione attuale sia una tremenda ferita per noi spettatori e per tutti gli operatori culturali. Il dubbio – l’ennesimo – che matura, infatti, è che nella progettazione del lavoro di JR sia mancato l’interesse per una reale riflessione sui motivi per cui, a oltre un anno dallo scoppio della pandemia, i luoghi della cultura siano ancora considerati un’attività inessenziale; una riflessione che avrebbe necessariamente comportato una distribuzione accusatoria di responsabilità, che si è preferito sacrificare in favore di un banale “effetto wow” o, come ha scritto Dario Orphée La Mendola su Segno, un’“arte leggera, anzi leggerissima”.
“È andata diffondendosi la tendenza a considerare l’arte esplicitamente progettata per un contesto specifico in qualche modo ‘di serie A’, in virtù di una sua presunta natura più originale”.
La Ferita rischia così di restare nella storia come una chance lasciata passare troppo in fretta, un lavoro che in un momento storico di profonda difficoltà assume una (giustissima) istanza e non riesce a fare altro che depotenziarla, svuotandola di qualsiasi carica davvero politica e assottigliandola al livello di una spettacolare forma di intrattenimento visivo. E questo appare tanto più vero quanto più ci si concentra sugli obiettivi che l’opera si poneva: “sognare, creare, immaginare il futuro”, come scritto da JR stesso sul suo profilo Instagram. Ma a chi spetta la responsabilità di questa triplice azione? Non certo all’artista, che difficilmente potrà raccontare di aver cambiato lo stato delle cose con un progetto che pare troppo allineato e troppo poco conflittuale per produrre un esito concreto. Spetta allora a quelle istituzioni che tanto hanno voluto e sostenuto la realizzazione dell’opera? Assolutamente no, perché, secondo quanto chiarito ancora da JR, “sta a noi aprirli”, anche se metaforicamente, ovvero a noi privati cittadini. Ed è qui che arriva al suo cortocircuito logico il valore comunitario de La Ferita. In una fase storica in cui media, politici e opinione pubblica continuano ad assegnare ai singoli individui la colpa di “atteggiamenti irresponsabili” che ci impediscono, da un anno a questa parte, di interrompere la catena del contagio (prima gli untori erano i runner, poi i discotecari, dunque la “movida”, ora i timorosi della campagna vaccinale), forse incaricare il cittadino anche della responsabilità di immaginare un futuro in cui i luoghi della cultura siano di nuovo perfettamente attivi è un po’ troppo. Soprattutto, è un modo di de-responsabilizzare chi il dovere di trovare soluzioni pratiche e percorribili già lo avrebbe, cioè la politica, per cui ciò che lo Stato taglia o toglie torna dalla porta sul retro come attivismo richiesto all’individuo, incaricato ora anche di crearsi una propria illusione di futuro migliore.
In conclusione, JR e la sua nuova opera, se proprio riescono a suscitare un dibattito, lo fanno inconsapevolmente proprio sulla necessità di “immaginare”: è davvero possibile che, dopo un anno di emergenza globale e di chiusure, di simposi online e di discussioni tra intellettuali di prim’ordine in diretta su Instagram, di riprogettazioni, ripensamenti e riprogrammazioni più o meno utopistiche, siamo ancora fermi al punto in cui non si può far altro che immaginare? Quando si potrà finalmente assistere a qualcosa che assomigli a un’azione? Anche stavolta, purtroppo, nonostante il grande clamore prodotto soprattutto online da La Ferita, per una risposta non resta che aspettare.
‒ Daniel Borselli
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