Rieducare lo sguardo. La mostra di Luisa Lambri a Milano
Il PAC ospita la personale dell’artista comasca affermata a livello internazionale. Una mostra perfettamente calibrata, che regala uno sguardo nuovo e autonomo su particolari di celebri architetture. E sull’architettura stessa del museo milanese.
È raro, visitando una mostra, provare la sensazione che ogni cosa sia esattamente dove dovrebbe stare: è ciò che accade visitando Autoritratto, personale che il PAC dedica a Luisa Lambri (Como, 1969; vive a Milano), risarcendola del fatto di essere forse più conosciuta all’estero che in Italia.
Le sue fotografie scovano angoli inaspettati di architetture fortemente caratterizzate, isolano un dettaglio senza magnificarlo ma innescandolo, facendolo fiorire in tutta la sua autonomia. Non si tratta di cercare un facile lirismo valorizzando la poesia di ciò che rimane abitualmente discosto dallo sguardo. Al contrario, siamo davanti a un’operazione rigorosa che decentra lo sguardo per azzerarlo e rieducarlo, per dargli una prospettiva nuova e proprio per questo autonoma.
IL MINIMALISMO DI LUISA LAMBRI
La strada è certamente quella del minimalismo e della sottrazione. Viene spontaneo pensare che immagini come queste operino in opposizione rispetto alla componente prescrittiva dell’architettura, anche quando si tratta dell’opera di celebri progettisti e di luoghi dedicati alla cultura.
Ma grazie all’impostazione della mostra si comprende un’altra dimensione che non smentisce la prima: ovvero quella costruttiva e perfino quella emotiva. Quest’ultimo ambito, che potrebbe sembrare incongruo riferito a opere tanto minimali, non va rimosso, ma coniugato con il decentramento rigoroso dello sguardo di cui si è detto.
I singoli scatti interagiscono con gli altri scatti dello stesso ciclo e ogni ciclo si rapporta con gli altri. Ma il vero capolavoro è il rapporto tra lavori e spazio espositivo, il che consente una lettura “esponenziale” dell’opera. La fotografia si fa ponte tra le architetture ritratte in modo tanto anticonvenzionale e le forme del PAC di Gardella, dando vita a una strada che si può percorrere nei due sensi.
LE OPERE DI LUISA LAMBRI
È un’operazione rischiosa allestire una mostra di Luisa Lambri. Perché ogni minimo eccesso snaturerebbe l’essenzialità delle immagini e farebbe sfociare l’interazione con lo spazio espositivo nella retorica. Qui, il senso della misura è invece perfettamente rispettato, con il culmine dell’allestimento nel parterre del ciclo Untitled (Sheats-Goldstein house), che dà le spalle al visitatore per poi avvolgerlo.
Anche i riferimenti ad artisti come Fontana rimangono uno spunto subito individuabile ma che si dimentica dopo poco, accettando di buon grado l’ingresso nell’atmosfera felicemente ambigua, di omaggio e analisi critica, che permea l’esposizione. Così come la presenza di architetti come Siza, Gropius, Breuer, Terragni tramite particolari delle loro creazioni rimane uno spunto pesante ma dal quale si può (e forse si deve) prescindere.
Senza adottare un approccio paternalistico, l’arte di Luisa Lambri chiama il visitatore a una rieducazione dello sguardo che sia generale e complessiva, anche una volta abbandonate le sale della mostra.
‒ Stefano Castelli
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