Carta, acqua e sol levante. Nancy Genn a Venezia
Dopo la retrospettiva a Palazzo Ferri Fini nel 2018 e la mostra a Ca’ Pesaro l’anno dopo, l’artista californiana torna a Venezia con una personale raffinata che ne ripercorre il lavoro pittorico e grafico. Anche senza le sculture, il risultato è tutt’altro che piatto.
La potenza e il fascino della produzione artistica di Nancy Genn (San Francisco, 1931) risiedono in ciò che non viene detto o mostrato. In un’epoca in cui i fatti sono tanto più reali quanto più vengono esibiti, urlati, offerti al pubblico dominio (e talvolta ludibrio), l’artista californiana ci ricorda la sottile ma straordinaria forza del taciuto, del celato. Lavorando per sottrazione, la sua ricerca diventa spunto per una riflessione universale che, proprio per questo, riesce a farsi autenticamente intima, a parlare a ciascuno senza banalizzare la conversazione.
Genn è un’artista che la stampa e la critica definirebbero “poliedrica”, per la vastità e varietà non solo dei linguaggi, dalla scultura alla pittura fino alla vitreografia, ma soprattutto delle tecniche esplorate. A partire dagli Anni Sessanta sperimenta la fusione a cera persa e in seguito la fusione diretta. All’incirca un decennio più tardi inizia a lavorare con la carta da lei prodotta. Una carriera che manifesta un desiderio incessante di rinnovarsi, appannaggio di chi ha fatto dell’arte un atteggiamento nei confronti della vita più che un lavoro.
NANCY GENN E IL GIAPPONE
La permeabilità fra tecniche, culture e saperi è evidente nei lavori di Nancy Genn: da ogni viaggio l’artista prende qualcosa, un’intuizione chiaramente leggibile nelle opere. La produzione artistica diventa un diario di bordo: dal Sudamerica a Roma, dalla Turchia al Medio Oriente. Fra tutti, ad aver influenzato maggiormente il suo lavoro è il Giappone, le cui eco si percepiscono nelle scelte compositive che rievocano l’essenzialità e la distribuzione orizzontale dello spazio tipiche delle architetture nipponiche, come accade in Sedona 11; nella compresenza di pittura e calligrafia, talmente connesse alla cultura giapponese da essere ricondotte alla medesima tecnica, quella del sumie (inchiostro e acqua); nell’idea stessa di lavorare su tele o carte che sembrano srotolarsi, fisicamente e concettualmente, come i tradizionali supporti del sumie.
Ciò che più di tutto Genn sembra aver portato con sé dal periodo di residenza trascorso in Estremo Oriente è la qualità del tratto, in cui il vuoto emerge fra le strisce di colore, dando forma e corposità al segno. Un vuoto quindi che non è semplice assenza, Nulla, ma è condizione di possibilità del pieno, di scrittura e pittura insieme. In ultima analisi, della rappresentazione stessa.
LA CARTA MODELLATA DALL’ARTISTA DI SAN FRANCISCO
Proprio in Oriente Genn entra in contatto con la carta, apprendendone le fasi di produzione e il valore simbolico-rituale. A partire dagli Anni Settanta inizia a produrla manualmente, imparando a conoscerne la consistenza, le proprietà fisiche di trasparenza, opacità e assorbenza date dal tipo di fibra impiegata. Attraverso un lavoro meticoloso e paziente, Genn assembla direttamente sul setaccio pezzi di polpa colorata, che andranno poi ad aggrapparsi alla tela in lino.
Come si intuisce dai pezzi in mostra delle serie Saratoga e Marshfield, mediante la calcografia, l’applicazione successiva di altri materiali come gouache o caseina e la rielaborazione attraverso monotipo, collage o strappo, la carta assume una profondità che è mutuata dalla sua esperienza di scultrice. Cessa di essere un semplice supporto bianco, uniforme, scontato, per diventare mezzo, forse addirittura contenuto, pregno di rimandi simbolici e spirituali.
L’ACQUA E LA LUCE NELLE OPERE DI NANCY GENN
Nata e cresciuta nella Baia di San Francisco, Genn ha un forte legame con l’acqua, che spesso è non solo oggetto ma vera e propria chiave interpretativa delle opere. L’aria satura di vapore, la luce obliqua che si riflette sulle pallide acque cangianti della baia ricordano le atmosfere lagunari. E forse è proprio per questo che l’artista sente una particolare affinità con Venezia.
Nel dittico tratto dalla serie Patagonia, così come in Rainbars_15 e The Shape of Water, l’acqua non ha una direzione chiara: può essere allo stesso tempo cascata, geyser, fossa oceanica o riaffiorare dalla superficie pittorica. Ancora una volta Genn richiama l’arte giapponese del sumie nell’assenza di un impianto prospettico chiaro o, per meglio dire, nella compresenza di più punti di fuga. L’immagine al contempo emerge e si inabissa in quel vuoto dal quale è sorta e a cui dovrà ritornare, e di cui porta ineludibilmente i segni.
Il lavoro di Genn nasce e si conclude con un’esperienza del Vuoto, la sua e la nostra. O, per meglio dire, della dialettica fra vuoto e pieno che è condizione di esistenza della realtà e della sua rappresentazione attraverso il pensiero, il linguaggio e la figurazione. Una realtà che per l’appunto non è specifica, legata a un qui e ora, ma universale. È tutte le realtà possibili, oltre le semplici sembianze delle cose. Genn ha capito che “l’arte migliore è quella su cui l’anima non impone limiti. Qualcosa che va oltre la forma, al di là del suono” (Anonimo cinese dell’VIII secolo).
– Irene Bagnara
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