Ricercare l’ignoto. La mostra di Riccardo Arena a Milano
È il frutto di una lunga ricerca tra l’Armenia, l’Etiopia e l’Iran il progetto artistico di Riccardo Arena, in mostra alla Galleria Milano.
Nella prefazione de Il nome della rosa, Umberto Eco scriveva che il suo romanzo può essere letto con molti registri diversi, dal noir al romanzo storico, dal saggio filosofico alla cronaca.
L’opera è sempre la stessa, ma può essere affrontata con modalità diverse, così la mostra di Riccardo Arena (Milano, 1979) Hyphae. Dove le cose cadono e non ritornano più a se stesse, alla Galleria Milano con la cura di Katia Anguelova.
LA MOSTRA DI RICCARDO ARENA A MILANO
È un’articolata e complessa installazione che si snoda nei locali della galleria. Pare di trovarsi di fronte a un’opera unica, ma così non è. È l’esito di un progetto di ricerca a lungo termine tra l’Armenia, l’Etiopia, l’Iran. Il suo modo di operare è attraverso lunghi soggiorni di ricerca, della durata di qualche anno, in precedenza, in Cina, in Argentina, in Russia. La sua è una metodologia randomica, a spingerlo è la volontà di conoscere l’ignoto e chi studia sa bene che più si studia più si deve studiare. Si tratta di una sorta di catena di approfondimenti. Ma cosa si trova i fronte il visitatore? Sculture, incisioni, fotografie, piccole installazioni. Lo spettatore è chiamato a guardare e non a conoscere la spiegazione di ogni opera. La dimensione è ageografica e atemporale, nonostante l’apparenza. Non è un lavoro di documentazione, per questo vi sono i workshop a cui si può partecipare.
In mostra c’è il libro d’artista LuDD! Topografia della luce, pubblicato da Kunstverein Publishing e Boîte Editions, un poema metafisico in 21 capitoli.
LE OPERE DI RICCARDO ARENA
Nella sala iniziale della mostra ci sono pietre, soprattutto palombini, frutto della ricerca di Arena, che pratica il Suiseki, un’arte giapponese che valorizza alcuni aspetti della pietra come la stabilità, la longevità, l’immortalità. Sono pietre, la cui forma rimanda al paesaggio, atte alla pratica contemplativa. Sono qui così come si trovano in natura, non vanno ne scalfite, né tagliate, né tanto meno estratte. Nella seconda sala campeggia sulla parete un grande tondo di paesaggi costruiti. In mezzo alla sala vecchi album, nati per contenere francobolli, raccolgono immagini scientifiche alle quali sono abbinate piccole pietre.
Le opere ripercorrono quel che succede nel libro con un cammino inverso rispetto al solito. Non si tratta, infatti, di un libro di documentazione. È un libro complesso in cui tutto inizia dal sacrificio di un toro sacro. La mostra è una sorta di labirinto, nato in luoghi che sono la culla della nostra civiltà, in cui ci si addentra in riflessioni di carattere cosmogonico, misterico, mitologico, simbolico. La visita è un’esperienza dalla quale lo spettatore non può che uscire incuriosito e desideroso di conoscere altro.
‒ Angela Madesani
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