Danneggiata l’opera di Marzia Migliora: i paradossi dell’arte pubblica a Roma

L’opera è stata danneggiata per “uso improprio”, ma la responsabilità è della sfera pubblica. L’opinione di Alessandra Mammì sul “paradosso Migliora”

È stato un vero esperimento di arte pubblica quello di Marzia Migliora: progettare una doppia installazione, lo stesso lavoro in un giardino pubblico e una prigione: nel caso specifico il parco dei Daini e La Casa Circondariale femminile di Rebibbia per la rassegna “Back to nature” che ancora una volta Costantino D’Orazio ha proposto in Villa Borghese a Roma.  Anche il lavoro era un complesso esperimento tecnico: un’altalena fatta di canne d’organo, arricchite di componenti meccaniche ed elettroniche, studiate per emettere suoni ad ogni oscillazione con sonorità più gravi o corali a seconda della velocità, del ritmo, della leggerezza dell’altalena.

ARTE PUBBLICA. GLI IMPREVISTI

Ed era infine un esperimento psicologico, perché, come afferma l’artista, se si sale tristi su un’altalena si finisce per sorridere comunque e se a questo si aggiunge la sorpresa che arriva dalle buffe note dell’organo, l’effetto non può che essere giocoso. Anche il titolo scelto per l’opera “Staccando l’ombra da terra” – e via su coi piedi verso il cielo, finalmente leggeri dopo un periodo di lockdown per chi arriva nel parco, e nel lockdown perenne di chi vive in prigione -, sottolinea l’intento liberatorio e il fine di tanto esperimento.Ma come tutti gli esperimenti, anche in questo caso, il risultato è stato imprevisto. Ed ecco che oggi la pubblica e libera altalena danneggiata “per uso improprio” come recita il comunicato della Sovrintendenza, giace ora spezzata, transennata e irraggiungibile nel libero parco, in attesa di essere rimossa del tutto dal giardino, mentre l’altra altalena quella reclusa di Rebibbia è ben curata e accudita dalle detenute e si candida a restare come opera permanente. Cosa insegna tutto ciò?

LA LEZIONE DELL’ARTE PUBBLICA: IL PARADOSSO MIGLIORA

È una grande lezione su quel che vogliamo, dobbiamo e possiamo fare quando si parla di “arte pubblica”. La quale perché sia davvero pubblica deve essere condivisa, non solo nell’uso ma nel rispetto e nella consapevolezza che quell’oggetto non vive lì solo per la sua funzione materiale, ma per un benessere più complesso che crei complicità e soprattutto “comunità”. Ed è proprio questa la parola chiave che spiega il “paradosso Migliora” e la forza di un’opera che, spingendosi persino aldilà delle intenzioni del suo autore, ci racconta come una comunità, sia pure di reclusione, abbia capito il valore aggiunto di quel lavoro, sfuggito invece ai distratti fruitori di una villa al centro di una capitale, incapaci di vedere il bene pubblico in un albero, in una panchina figuriamoci in un’opera d’arte. E non ci consola sapere che la colpa di tanto danno è nell’ “uso improprio” da parte di ragazzini entusiasti e iperattivi gestiti da genitori permissivi e non di malintenzionati vandali nemici della ricerca contemporanea. Perché a spiegare le dinamiche di un degrado arriva la saggezza di un proverbio: “Se in un quartiere si rompe un vetro e nessuno lo ripara, dopo poco l’intero quartiere sarà danneggiato”. Traduzione: se quel parco tra i più belli del mondo è così abbandonato a se stesso, se i suoi prati sono secchi, i suoi alberi macilenti, i sentieri polverosi, se non basta neanche una bella iniziativa come quella di portare insieme alla testimonianza degli artisti l’attenzione sulla meraviglia di quella Villa e sul suo bisogno di cure, sarà difficile chiedere il rispetto di un’opera, la cui unica colpa è di essere troppo sola e troppo fragile per resistere all’incuria materiale e morale che ha ormai contagiato una città intera, dove, per paradosso, l’unica roccaforte nella quale sia possibile “Staccare l’ombra da terra” è rimasta una prigione.

Alessandra Mammì

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