Intervista a Renata Boero: a lei va il Premio Arte: Sostantivo Femminile 2021
“Mi piace pensare che non ho scelto gli elementi naturali, ma sono loro ad essermi venuti incontro, credo grazie ad una precisa presa di posizione sia politica”. L’artista ha raccontato il suo percorso intellettuale, artistico e creativo a Artribune in questa intervista.
In occasione del tredicesimo appuntamento di Premio Arte: Sostantivo Femminile, creato da Maddalena Santeroni, Presidente dell’Associazione Amici dell’Arte Moderna a Valle Giulia, organizzato in collaborazione con la Direttrice della Galleria Nazionale Cristiana Collu e promosso tra gli altri da Comin & Partners e Terna, Artribune ha intervistato Renata Boero (Genova, 1936). L’artista – nota a livello internazionale per l’uso di pigmenti e sostanze naturali all’interno dei suoi lavori – sarà premiata assieme ad altre sette donne, alle quali viene riconosciuto un valore di spicco in diversi ambiti della cultura e della creatività, “esempi di impegno e successo che sottolineano il contributo femminile in contesti oggi sempre più ampi”. La premiazione si svolge il 28 giugno 2021 alle 19 presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Cosa rappresenta per te vincere Premio Arte: Sostantivo Femminile?
Una grandissima sorpresa. È stato qualcosa di inaspettato e come tale mi ha fatto un piacere enorme. Apprezzo il fatto di essere insieme ad altre donne, un premio corale mi dà più soddisfazione di uno singolo. La magia del premio è quella di riuscire a valorizzare alcune donne per l’autenticità e la passione che dedicano al proprio lavoro.
“Ho appreso che esistono fili sottili e invisibili che legano mondi e culture lontani nel tempo e nello spazio. Scoprirli, decodificarli e leggere le influenze costituisce l’essenza del mio lavoro”.Questa affermazione mi ha fatto venire in mente Atlas di Aby Warburg, dove civiltà distanti per tempo e spazio si incontrano. Cosa ne pensi a riguardo?
È la chiave del mio lavoro, quello che voglio trasmettere: un’energia vitale continua. Sono affascinata dall’antropologia culturale, dagli archetipi, dalla memoria e dal tempo. Fili sottili di energia passano attraverso il tempo e lo spazio alimentando una sequenza continua temporale che allontana la fine, il tempo diventa infinito. Mi piace pensare che non ho scelto gli elementi naturali, ma sono loro ad essermi venuti incontro attraverso la memoria e le storie, credo grazie ad una precisa presa di posizione sia politica, sia culturale che morale.
Ho notato che le soppesi molto, ci sono delle frasi e dei concetti che ritornano durante le interviste, dei ritorni nei titoli delle tue serie, delle parole-chiave…
Nella ripetizione è come se riuscissi a catturare le inesorabili metamorfosi della materia e del tempo… non riesco a pensare a qualcosa di definito, cerco sempre qualcosa in divenire, per questo amo ripeterle: è come farle nascere e realizzarle.
Puoi parlarci di come la scoperta in gioventù di Jung abbia cambiato il tuo approccio all’arte? Come sei arrivata alle griglie organiche, al “caos ordinato“?
Sono passata da un rapporto con l’arte più giocoso ed infantile ad un rapporto più serio. Studiando in un collegio in Svizzera, ad indirizzo junghiano, ho approfondito alcune letture, alcune tematiche. Alcuni incontri come quello con lo yoga (avevo appena 16 anni) mi sono rimasti attaccati addosso, sulla pelle. Lo yoga si avvicina molto a questa urgenza di concentrazione ed introspezione… sono affascinata dalle radici, noi stessi siamo radici. La radice della vita. L’incontro con gli elementi naturali ha poi trovato riscontro nel periodo in cui ho lavorato presso l’Istituto di Restauro a Palazzo Rosso di Genova, negli anni Sessanta: gli elementi naturali stessi hanno reso tangibili le suggestioni che avevo trovato in Svizzera.
Quando è iniziato questo percorso artistico?
Fin dall’inizio l’arte mi è stata compagna di giochi; più tardi ho sentito l’impellenza di de-costruire, sconvolgere tutto, distruggere, cambiare, rinnovare… ciò ha coinciso con la mia voglia di reinventare la pittura senza la pittura, in un sodalizio con i materiali che ho incontrato. Effettivamente, è stata una coincidenza di incontri che, nel giro di pochi anni, ha cambiato il mio modo di approcciarmi all’arte. Ho abbandonato le esperienze precedenti, tutti avevano il desiderio di cambiare… era l’aria del momento, avevamo voglia di cominciare tutto da capo! Naturalmente ho raccolto subito gli stimoli che ho ricevuto, era quello che stavo aspettando. Ho raccontato la natura con la natura, la vita con la vita. I materiali essendo organici vivono e partecipano di trasformazioni continue.
Qual è stata la scoperta più emozionante e significativa per te e in che contesto è avvenuta?
Al Gabinetto di Restauro… Tutto nasce dalla ricerca libraria e dall’approfondimento di materiali ed elementi, in Africa è stato poi bello trovare dei corpi viventi, i colori vivi a dipingere i corpi delle tribù (durante le manifestazioni e i rituali, matrimoni e funerali). All’inizio vi è stata un’indagine chirurgica, tra trattati e manuali antichi, una ricerca più sottile, attenta, filtrante. In seguito ho vissuto in Africa alcuni mesi, lì ho trovato un altro aspetto dei materiali che ha scaturito un’indagine antropologica.
Molti studiosi e critici hanno parlato della tua arte come di una pratica legata alla Cucina perchéeffettivamente bolli i tuoi pigmenti, li rimesti, li metti in ammollo e attendi la trasformazione. Ha un po’ a che fare con l’alchimia, con le antiche pratiche dei pittori… una Cucina/Fucina, cosa ne pensi?
È una Cucina che si può scrivere anche con la “F”, un modo di controllare le trasformazioni alchemiche, di sperimentare… ciò che più apprezzo nel mio lavoro è la sorpresa, è un momento magico. Lavoro spesso “a libro” con le tele piegate, (l’energia del braccio che piega, mettendo in atto l’operazione del fare, è parte integrante del rituale) e, quando apro per la prima volta la tela dopo molto lavoro, mi piace sorprendermi. Non tutto può essere comandato da me: è un lavorare insieme alla materia, come fossimo colleghi. È un fare che nasce dalla materia stessa.
“Il mio è un fare filtrato da un sapere dimenticato a memoria” (ricordiamo il Libro dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti) questa frase ha un fascino e una forza formidabili. Puoi parlarci del ruolo della memoria nel tuo lavoro?
Quello che a me piace è poter cancellare tutto ciò che so, ma nelle mani rimane una sapienza inconscia. Mi piace distruggere quando e quanto ho conosciuto. Fino al 1965 sperimentavo la pittura, usavo la plastica ma poi ero insoddisfatta di tutto. Mi sembrava tutto vecchio, già visto, già fatto.
Paolo Fossati afferma “il dipingere non è lavoro innocente è, al minimo, un compromesso culturale”, cosa è per te dipingere? Cosa hai voluto comunicare attraverso questo atto rivoluzionario durante gli anni?
Comunicare è innanzitutto una scelta politica. Volevo reinventare la pittura, allontanarmi da un fare pittura che non aveva più ragione di essere, toccare la pittura da un’altra logica e punto di vista. Il materiale è una scelta politica, il fare è una comunicazione pittorica che racconta la natura senza diaframmi. Questa è stata la rivoluzione: la coscienza che il diaframma non c’era più. Bisognava trovare un modo di comunicare al mondo le proprie idee. Ho attraversato la pittura concettuale senza lasciarmi divorare da questa e senza rinunciare al piacere estetico, alla comunicazione di emozioni e sentimenti attraverso rumori, odori, tattilità. La comunicazione empatica. Mi piace pensare di comunicare emozioni.
-Giorgia Basili
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