La mostra della compianta Chiara Fumai al Pecci Prato
Prima a Ginevra, ora al Centro Pecci di Prato, la mostra “Chiara Fumai. Poems I will never release” approderà, entro il 2022, sia alla Casa Encendida di Madrid che alla Loge di Bruxelles. Il giusto omaggio a un'artista scomparsa troppo, troppo presto.
Ibrida, ironica, incendiaria. Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017) era tutto questo e forse di più, senz’altro la giovanissima artista ci ha lasciato un’opera fulminante che, nell’arco di 10 anni, è stata in grado di sollevare molti quesiti, introducendo un nuovo approccio alla lecture-performance e alla videoarte.
Il duo Francesco Urbano Ragazzi, co-curatore della mostra insieme a Milovan Farronato, afferma: “Chiara Fumai non era una performer artist ma un’artista performativa“. Questo gioco di parole, che potrebbe sembrare un nonsense, in realtà, è una valida chiave interpretativa della sua attività “eteroclita“, come la definisce Farronato. Perché quest’artista era all’avanguardia? In lei convivevano più voci, sovrapposte ma mai appiattite, che emergevano all’occorrenza, come conigli bianchi dal cilindro: la Dogaressa Querini, Zalumma Agra, Dope Head, Annie Jones, Harry Houdini, Eusapia Palladino, Nico Fumai, Vito Acconci.
CHIARA FUMAI E LE DONNE
Era il 2013, in occasione della vittoria del Premio Furla Chiara Fumai veste i panni di Valerie Solanas, la donna che aveva provato ad assassinare Andy Warhol, scrittrice e attivista, ideatrice del Manifesto SCUM. “ … Non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile”.
Chiara Fumai presenta un wall drawing e un videomessaggio nel quale enuncia ‒ imitando nei connotati il format della discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994 ‒ il contenuto del manifesto per l’eliminazione del maschio, sollevando con aria minacciosa un pugnale. Parte dell’opera è costituita da una serie fotografica in cui alcune eroine ‒ e il mago Houdini ‒ le rubano la pelle: sono Fumai e se stesse all’unisono, leggono il Manifesto SCUM con dietro, a caratteri cubitali, la scritta “a male artist is a contradiction in terms“. Ognuna è riconoscibile grazie agli accessori e agli abiti di scena: la donna-barbuta Annie Jones, i codini e la maglietta greca per Dope Head (la tossica), Eusapia Palladino (La donna delinquente) con il libro appoggiato sulla fronte per alludere alla paranormalità della medium pugliese.
LE OPERE DI CHIARA FUMAI
A Documenta l’artista porta il progetto The Moral Exhibition House (2012), nello Staatspark Karlsaue di Kassel. Accoglie il pubblico in quella che ha l’apparenza di una casa infestata, conficcati tra le assi del parquet alcuni volumi di Hegel. Zalumma Agra ‒ sintesi del mito della razza bianca e apoteosi di bellezza circassa ‒, schiava liberata dall’harem di un ricco sceicco, è costretta ora, in qualità di “stella dell’est” del Barnum Circus, a una doppia oppressione: divenire una macchina dello spettacolo ed essere privata della parola. In tutto e per tutto un’immagine muta. La colpa è di un espediente: una messinscena di volta in volta interpretata da attrici diverse, scelte per il pallore dell’incarnato ma costrette al silenzio per non rivelare l’inganno della finzione. Questo “fenomeno da baraccone” grazie alla possessione medianica di Chiara Fumai, può finalmente vendicarsi. In un tableau vivant aggressivo e vertiginosamente loquace, Chiara/Zalumma recita per intero il Secondo Manifesto Femminista, anche conosciuto come Io dico io (titolo della collettiva, tutta al femminile, ora alla Galleria Nazionale di Roma) di Carla Lonzi. Manifesto e invettiva contro un ordine stantio, uno status quo marcescente. Lo stesso gesto incarnato, l’espulsione della saliva, crea una traslitterazione letterale della provocatoria esortazione del saggio Sputiamo su Hegel. Persino il titolo dell’opera Shut Up, Actually Talk è un chiaro rimando al pensiero della femminista. Evidente è anche l’intento dissacratorio, il tentativo di smascherare le differenze tra cultura alta e di massa: il genere horror viene alluso attraverso lo sfondo rosso che riecheggia Suspiria di Dario Argento.
Altra caratteristica che va sottolineata è la capacità nel corpus fumaiano di con-fondere testi prelevati da sorgenti diverse al fine di creare un flusso di coscienza ibrido. Poems I will never release non vuole infatti creare un effetto nostalgico, un compianto per la perdita dell’artista, bensì segnalare la tendenza della stessa a non scrivere di proprio pugno i testi utilizzati nella pratica, piuttosto di rielaborare e re-interpretare le parole lasciate in eredità da altri (o, sarebbe meglio dire, altre).
LO STUDIO DI CHIARA FUMAI
Le donne dalle quali Chiara Fumai è “posseduta” “non sono vittime, ma soggetti collettivi capaci di costituire nuove alleanze” e ancora, fantasmi che “non annunciano l’apocalisse, non parlano della fine dei tempi, ma promettono un nuovo tempo, una nuova Storia. Un tempo che Nietzsche avrebbe chiamato Morgenröte: aurora“, afferma Urbano Ragazzi.
All’inizio di questa galleria “ectoplasmatica” di ritratti che non esistono, se non tramite la loro attività fantasmatica ‒ appunto servendosi del corpo dell’artista ‒ vi è l'”intestino“, come lo definisce Farronato: la casa-museo, immaginata come opera postuma dalla stessa artista. La ri-creazione del suo studio con gli appunti, gli abiti di scena, i libri dai quali attingeva ispirazione. Idealmente una Boîte-en-valise duchampiana ma in scala 1:1. Un universo psichico-artistico in scatola.
IL FEMMINISMO SECONDO CHIARA FUMAI
Entrando nelle sale, siamo accolti dalle note di Eimai Prezakias intonate dall’oppiomane Dope Head che, grazie all’eroina, si sente capace di imprese altrimenti insormontabili.
Il video The Book of Evil Spirits si apre con Chiara Fumai, gli occhi coperti da una benda di pizzo, nelle vesti di Eusapia Palladino, che chiede “less light” per poter accedere allo stato di trance che le permetterà un ulteriore passaggio medianico. Un’introspezione verso gli aspetti reconditi dell’essere donna, non un atto narcisistico, come Rosalind Krauss individua essere la caratteristica/sintomo della videoart, bensì un momento riflessivo che porta alla scissione di personalità, al compendio delle diverse figure femminili incarnate dall’artista. Un momento rivoluzionario che punta a interrompere il monologo della civiltà patriarcale, rivolgendosi all’esperienza storica femminista. La rottura del narcisismo della civiltà patriarcale e l’inclusione dell’alterità, ossia di un “femminismo anarchico e queer“, secondo la proposta di Urbano Ragazzi.
‒ Giorgia Basili
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