Respiro, fantasmi, cecità. Maurizio Cattelan in mostra a Milano
Circondata dalla consueta segretezza fino a questa mattina, ha finalmente inaugurato la mostra che segna il ritorno di Maurizio Cattelan a Milano. Sì, perché di iniziative nel capoluogo milanese ne ha portate avanti tante, anche recentemente, ma non ci faceva una mostra da undici anni. Abbiamo colto l'occasione per parlarne col diretto interessato, in uno scambio di mail che è durato diverse settimane.
La notizia è che Maurizio Cattelan (Padova, 1960) torna a Milano. Direte voi che invece è spesso nel capoluogo lombardo, e che di cose ne ha fatte tante, dal ditone in Piazza Affari (L.O.V.E., 2010) al punto vendita della Sgrappa (2021). Tutto vero, però erano undici anni che non esponeva in una mostra personale. Oggi 13 luglio è stata invece presentata in HangarBicocca Breath Ghosts Blind, per la cura di Vicente Todolí. Una mostra con “soltanto” tre opere: il Breath di una candida scultura in marmo di Carrara che rappresenta un uomo disteso a terra che dorme accanto al suo cane; i Ghosts delle decine di piccioni in tassidermia appollaiati sulle pareti e le travi in acciaio di HangarBicocca; e infine il Blind di un monolite nero attraversato da un aereo nero anch’esso, che fa inevitabilmente pensare a un frame terribile che tutti abbiamo visto durante l’attacco del 2001 alle Twin Towers di New York.
Qui di seguito trovate l’intervista con l’artista – intervista che non poteva avere il format classico: quindi, di concerto con lo stesso Cattelan e assecondando l’andamento tripartito della mostra, abbiamo optato per tre momenti di confronto, ognuno composto da tre domande, diluiti in tre momenti, ovvero prima dell’allestimento, durante l’allestimento e dopo la visita della mostra.
INTERVISTA A MAURIZIO CATTELAN – PRIMA DELL’ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA
Ma non dovevi andare in pensione?
You are so 2016! È una domanda che riporta le lancette dell’orologio indietro di cinque anni. Trump è appena stato eletto, l’Inghilterra è ancora in Europa, tutti lavorano nel proprio ufficio, mio padre è ancora vivo, El Chapo è arrestato per la quarta volta e la Ferrari è entrata in Piazza Affari. Da allora America è stato utilizzato da centinaia di persone al Guggenheim e poi è stato trafugato a Blenheim Palace, in Cina è stata esposta una replica della Cappella Sistina in formato stanza, Comedian è stata mostrata in fiera e poi mangiata da un passante. Il mondo è cambiato, e io insieme a lui.
A Milano non fai una mostra da parecchi anni, anche se qui sei attivissimo, dal “dito” in Piazza Affari alla Sgrappa. Perché adesso e perché in Hangar?
Sono passati undici anni. A volte serve molto più tempo per trovare il curatore giusto al momento giusto. Con Vicente [Todolí] avevamo lavorato insieme alla Tate: abbiamo fatto No soul for sale. A Festival of Independents, installato nella collezione del museo la Wrong Gallery in miniatura, mi aveva offerto la Turbine Hall e io non me la sono sentita di accettare: l’ho letto in una sua intervista, io lo avevo rimosso. Per mia fortuna il dialogo è rimasto fino a oggi. Vicente è rimasto un curatore senza paura, pronto a fare all-in, e oggi lo sono anche io.
Restiamo a Milano. Tu hai visto l’evoluzione della città dalla metà degli Anni Novanta a oggi. Cosa ne pensi? Parliamo a tutti livelli: generale, culturale, artistico…
Se non fosse stato per Milano, probabilmente sarei in galera per rapina in banca. Quando mi sono trasferito mi ero ripromesso che non avrei mai più lavorato alle dipendenze di qualcuno, e Milano è stata la città dove per la prima volta ho capito come potevo riuscirci. Era una città aperta al nuovo, e tutti erano pronti a incoraggiare e sostenere i giovani artisti, dalle redazioni delle riviste alle gallerie, alle associazioni no profit. Era una rete relativamente piccola, ma molto ricettiva. Sono sempre più spesso qui, è diventata una città piacevole da vivere, non solo uno spot dove recarsi per un evento specifico. Quella piccola rete si è estesa tantissimo, e Milano oggi non è solo una città che va oltre ai confini temporali della settimana del Salone, ma supera anche i confini geografici e si estende fino a toccare Bergamo, Torino, perfino Bologna.
INTERVISTA A MAURIZIO CATTELAN – DURANTE L’ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA
A proposito dei tuoi tanti “progetti collaterali”. Li vivi da imprenditore, da art director o magari anche in questo caso da artista? Parlo di Seletti, di Sgrappa ecc. Non valgono risposte cerchiobottiste!
È troppo cerchiobottista se dico che li vivo e basta? Non so davvero rispondere diversamente! È come se ti chiedessi se quando scrivi per Artribune ti senti più giornalista o curatore… l’unica risposta giusta è: non siamo quello che facciamo. I progetti collaterali sono una linfa vitale che non ho mai smesso di ricercare, perché mi permettono di sporcarmi le mani con leggerezza, senza pensare alle sfide che pone fare arte.
Giunto un poco oltre il mezzo del cammin di tua vita, a quali grandi domande sulla vita, sulla morte, sull’arte, su Pinocchio o sulla fuga, stai ancora cercando una risposta?
Credo che più che cercare risposte il punto sia cercare di risolvere le proprie contraddizioni. Ho passato l’esistenza a cercare un equilibrio tra la voglia di fare di più e meglio, e la tentazione di fermarmi e tirarmi fuori da ogni meccanismo di aspettativa. Credo che l’annuncio del mio pre-pensionamento sia stata la risposta alla seconda di queste due forze. Ora mi sento nel posto giusto, a metà strada.
Con All al Guggenheim pensavamo di aver visto tutto, e invece adesso fai una mostra che si annuncia come “una rappresentazione simbolica del ciclo della vita, una visione della storia collettiva e personale sempre in bilico tra speranza e fallimento, materia e spirito, verità e finzione”. Cerchi di superare il Damien Hirst di Palazzo Grassi/Punta della Dogana e ora della Galleria Borghese?
Cerco di superare me stesso, è l’unica competizione in cui ha senso gareggiare.
INTERVISTA A MAURIZIO CATTELAN – DOPO LA VISITA ALLA MOSTRA
Il respiro, i fantasmi e la cecità: sono i tre temi e le tre opere che esponi in Hangar. È una mostra pneumologica. Ci racconti come hai ideato questo andamento, questo movimento unico articolato in tre momenti?
Non ricordo più chi dicesse che le mostre sono fatte di due elementi: l’inizio e la fine. È una visione molto lineare, forse troppo, ma non posso nasconderti che la prima volta che ho percorso lo spazio di Pirelli HangarBicocca ci ho pensato. Ricordava un po’ una chiesa, ma senza altare e con un’unica navata. Mentre installavo la mostra mi sono reso conto di un aspetto a cui non avevo fatto attenzione all’inizio: Hangar funziona esattamente come una chiesa, perché il percorso è circolare. Dall’abside – dove di solito si trova la massima espressione spirituale – torni sui tuoi passi, e con occhi nuovi ripercorri all’indietro quello che il vecchio te ha già visto.
Quando sostengo che la tua arte sia squisitamente politica, nel senso più nobile del termine, in genere pensano che scherzi o che voglia fare una boutade. Ho preso una cantonata colossale?
La mia arte è squisitamente personale ma, come diceva uno slogan femminista di qualche tempo fa, il personale è politico. Credo che l’arte abbia ancora il potere di affrontare temi complessi e restituirli in modo semplice e immediato, ma mai semplicistico. In che modo farlo è la sfida che ogni artista dovrebbe sentirsi chiamato a affrontare.
In che dialettica sono il momento apparentemente più ludico della tua opera (penso ad esempio alla “banana” in fiera a Miami) con quello più cupo (qui penso ad esempio alla Biennale di Berlino che hai curato insieme a Massimiliano Gioni e Ali Subotnik)?
In realtà sono esattamente la stessa cosa, io non li vedo come momenti separati né separabili. È come se mi chiedessi l’elenco di tutti i muscoli che attivo per respirare: è un meccanismo fisiologico e fluido, che non si può sezionare. Se inizi a pensarci non respiri più. Le forma di ogni idea può essere diversa, a volte sono idee cupe sotto copertura, ma l’aspetto ludico è un mascheramento. Come la luce per gli insetti, è una trappola, e alla fine finisci fritto.
– Marco Enrico Giacomelli & Nicola Davide Angerame
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