Olafur Eliasson ha allagato la Fondazione Beyeler

Ancora un paio di settimane utili per visitare, a pochi chilometri da Basilea, l'installazione di Olafur Eliasson. Che ha rivoluzionato il museo svizzero creando uno stagno all'interno dell'edificio, dove crescono piante acquatiche e vivono insetti.

Non è nuovo a installazioni di grande impatto l’artista danese-islandese Olafur Eliasson: chiunque l’abbia visto, anzi esperito, non dimenticherà mai il Weather Project (2003) alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra, per fare un unico, straordinario esempio. Da allora a oggi, i progetti d’impatto si sono susseguiti con regolarità, sempre improntati a un grande rigore scientifico unito a una sapiente soluzione formale: in questo modo, l’attenzione sui gravi problemi che vive il pianeta Terra – focus centrale e coerente della ricerca di Eliasson – si sarebbe potuta tramutare presto in noia se non fastidio, magari dovuti a un tono didascalico e cattedratico che mai l’artista nordico ha assunto.

IL PROGETTO DI ELIASSON ALLA FONDAZIONE BEYELER

Senza voler necessariamente fare i conti in tasca alla Fondazione Beyeler – siamo alle porte di Basilea, nel comune di Riehen –, quest’ultimo progetto di Olafur Eliasson non dev’essere stato economico. Soprattutto perché ha comportato un intervento deciso e importante sull’edificio, splendido, progettato da Renzo Piano negli Anni Novanta. Una mezza dozzina di sale sono state infatti letteralmente allagate, quindi si è dovuto preventivamente procedere alla rimozione del pavimento e alla sua impermeabilizzazione. Inoltre, sempre di concerto con l’architetto genovese, Eliasson ha fatto rimuovere temporaneamente le vetrate che affacciano sul laghetto delle ninfee, così da rendere ancora più trasparente il diaframma fra interno ed esterno dell’edificio, già lievissimo nel progetto di Piano.
Null’altro c’è nelle sale, nulla alle pareti. Soltanto una spanna o poco più d’acqua, di un verde brillante (grazie all’utilizzo dell’uranina, sostanza che viene utilizzata per individuare e mappare le correnti oceaniche), nella quale crescono piante acquatiche come le ninfee nane, le campanelle d’Irlanda, le felci e molte altre selezionate dall’architetto paesaggista Günther Vogt. E poi ci sono gli animali, insetti prevalentemente, perché è ovvio che la mostra non si possa “chiudere”, e dunque è attraversata da qualunque essere vivente dotato di mobilità, specie di notte, quando i visitatori umani cessano di percorrere le passerelle in legno che attraversano le sale.
Il “passo indietro” compiuto qui da Eliasson è palese. Ma soprattutto non è ingenuo: non c’è retorica del ritorno-alla-natura, non c’è nostalgia pastorale. C’è una sensibilità spiccata per lo studio, la trasmissione e la discussione di quel che significa la percezione umana e di quel che è l’ecologia, il clima, l’atmosfera. È una mostra che senz’altro, come lo stesso Eliasson dichiara, prende spunto da alcuni studi recenti, come quello dell’antropologa Anna L. Tsing (The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, 2005), ma che riecheggia ancora più da vicino le riflessioni avanzatissime di Emanuele Coccia, in particolare il suo La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (2016).

IL RIALLESTIMENTO DELLA COLLEZIONE PERMANENTE

In occasione dell’installazione Life di Olafur Eliasson, il direttore della Fondazione Beyeler, Samuel Keller, ha riallestito la collezione permanente, disponendola in dodici sale.
L’apertura, nel foyer, è riservata al cavallo in tassidermia Senza titolo (2007) di Maurizio Cattelan, sospeso da terra e con la testa infilata nel muro. Poi un cambio di passo repentino, con la prima sala allestita a quadreria, con novanta opere per tre secoli (se qualcuno avesse la voglia di sommarne il valore, la cifra risultante sarebbe senz’altro da capogiro). Un altro diaframma, fisico stavolta – è la tenda di perle di vetro di Félix González-Torres –, e si accede a uno spazio decisamente più intimo e spoglio, con Brancusi a spalleggiare Barnett Newman e viceversa.
Da sindrome di Stendhal la “cappella Rothko”, e non da meno l’immensa sala con le ninfee di Claude Monet a cui si accostano, inevitabilmente degnate di minor attenzione, due sculture di Roni Horn e i colorati rilievi di Eliasson. Notevolissima la grande lavagna su cui Tacita Dean ha disegnato le nuvole, poi la riflessione tecnologica sul tempo che trascorre conduce alla sala di Henri Matisse (dove ci si può anche cimentare a ricomporre un suo collage) e infine un trio di sale monografiche che da sole varrebbero la visita: si comincia con le sculture di Alberto Giacometti, si transita per la pittura di Sigmar Polke e si conclude con la fotografia di Wolfgang Tillmans.

Natureculture. Exhibition view at Fondation Beyeler, Riehen Basilea 2021. Mark Rothko. Photo © Marco Enrico Giacomelli

Natureculture. Exhibition view at Fondation Beyeler, Riehen Basilea 2021. Mark Rothko. Photo © Marco Enrico Giacomelli

I NUOVI EDIFICI DI PETER ZUMTHOR

Proverbiale ciliegina sulla torta, il 2 giugno è finalmente arrivata l’autorizzazione cantonale per far partire il cantiere che sarebbe riduttivo definire un ampliamento della Fondazione Beyeler. Su progetto dell’Atelier Peter Zumthor, come avevamo annunciato ormai quattro anni fa, saranno infatti eretti tre nuovi edifici in una grande area verde adiacente il già esteso parco dell’istituzione svizzera. Come da cronoprogramma, i lavori partiranno alla fine dell’estate.

Marco Enrico Giacomelli

Riehen/Basilea // fino al 18 luglio 2021
Olafur Eliasson – Life
FONDATION BEYELER
Baselstrasse 101
www.fondationbeyeler.ch/
olafureliasson.net/life/

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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