Arte e natura. La giungla rosa di Giacomo Cossio tra Milano e la Romagna
Per il suo primo intervento in una galleria, nella sede di Fabbrica Eos, l'artista parmense Giacomo Cossio crea un ambiente surreale, sintetico, e allo stesso tempo iper-naturale ed eversivo. Perché alla fine tutto deve essere un gioco.
Una grande nevicata, che copre ogni cosa, la sotterra; quando la neve sparisce, si porta via anche i colori, e, mentre gli adulti lavorano, i bambini decidono di dipingere ogni cosa – dalle case agli alberi – nei colori più meravigliosi e brillanti. A chi abbia letto il libro per bambini Neve e poi neve e poi neve del galiziano Xosé Cermeno (di cui avete appena ascoltato la trama), l’opera di Giacomo Cossio non sembrerà solo una provocazione. Nel suo nuovo Atto Unico l’artista parmense classe ’74, ha incellofanato la galleria Fabbrica Eos e dipinto le piante con un compressore pieno di vernice naturale rosa. Una performance violenta, a tratti sensuale, un vero atto teatrale: così Cossio ha trasfigurato in una sorta di Paese delle Meraviglie lo spazio milanese, aperto negli Anni Novanta dal suo attuale direttore Giancarlo Pedrazzini. C’è tempo fino ad agosto per passare di giorno (o ancora meglio di notte) davanti e dentro la sede di viale Pasubio, per vedere sia il risultato di questo colpo d’occhio, glam e primitivo allo stesso tempo, sia l’allestimento fotografico, ma anche qualcos’altro. Un atto che è ancora in corso: le piante dipinte, infatti, continuano a crescere sotto la verniciatura, mix tutto umano di naturale e artificiale.
LA NATURA SECONDO COSSIO
L’impatto visivo è unico, magico e surreale, non il primo del genere per Cossio ‒ come già Contronatura, è il risultato di un pensiero compiuto e realizzato, dopo tanta pittura informale, bi e tridimensionale: “La verità è che io ho un lavoro molto chiaro in testa: è una performance, simile a quella fatta a Sant’Arcangelo l’anno scorso, di un uomo che vernicia delle piante in vaso. Questo atto deve essere seguito da una stasi che permetta alle piante di crescere normalmente. Questo per me è il fattore più intrigante: è come se l’opera si facesse da sé”, racconta l’artista ad Artribune. L’intervento, curato da Alberto Mattia Martini, appare scultoreo ma è eminentemente pittorico: “Io mi reputo un pittore, come faceva Kounellis. La pittura può essere traslata oltre la tela, e per me questa è pittura che si fa da sé e raggiunge matericità e cromie che io da solo farei fatica a comporre. Per questo traslo il lavoro sulla natura”.
Al centro di questo nuovo allestimento di scultura pittorica c’è proprio l’analisi di ciò che è naturale, e la trasfigurazione dei concetti di “naturale” in contrapposizione ad “artificiale”. Una contraddittorietà messa in scena in un colpo d’occhio assoluto, caotico e ordinato: “Per me ‘Contronatura’ richiama l’idea che l’uomo e la natura abbiano un rapporto ostile, un’opposizione atavica che diventa nel mio gesto orgasmica, eccitante”.
LA LEZIONE DI KOUNELLIS
E tutto perché “a un certo punto, invece di dipingere piante, ne ho presa una e l’ho dipinta: un atto rivelatore”. Quel gesto, anche nella visione di una natura che cresce e trionfa, ha in sé i tratti di un gioco violento, istintivo e radicale: “Come un bambino che strappa le ali a una farfalla, il gesto è secco, non ha mediazioni. C’è tantissimo bambino in quello che faccio, l’idea di gioco è sempre alla base del mio lavoro – si vedeva quando facevo le ruspe”. Anche per mantenere questa immediatezza corporea la performance deve avvenire nella destinazione finale dell’opera, che diventa teatro contaminato e attira l’attenzione: “Proprio come Kounellis, quando diceva che se di un mucchio di carbone in una stanza puoi ignorare la presenza, non può avvenire lo stesso se ne porti dentro una tonnellata”.
LA PERFORMANCE DI COSSIO
Il gesto è eversivo, quindi, soprattutto in questo contesto: “Questa è la prima performance in una galleria, anche molto curata, qui va in scena una contaminazione. Il risultato è molto ambiguo, da una parte sembra un’installazione mondana, dall’altra una realtà terribile”, sottolinea Cossio. La consapevolezza del mondo che ci circonda, il nostro rapporto con la natura improntato al controllo – più che mai metafora del patriarcato – vive in queste piante rosa: “Appena fatta sembrava un mondo plastificato, dà voce a quel desiderio di pulizia che spesso coincide con il lusso, un sogno dell’asettico e del levigato. Per me questo lavoro riflette il modo in cui modelliamo la natura secondo le nostre estetiche, potandola e piegandola”.
Il risultato, una serra gioiosa, brutale e stravagante, ha sorpreso lo stesso direttore dello spazio: “La gestazione della mostra è stata lunga per via della fattibilità, e ho avuto un po’ paura a farla, ma l’abbiamo fatta. Mi ha colpito molto” – dice Pedrazzini – “il momento della performance, tutto documentato da un regista e un fotografo, e la relazione di Giacomo con l’atto del dipingere: è molto fisica, una proiezione di sé. Il senso che si percepiva mentre dipingeva era di un uomo che sta facendo una cosa bella”. Passanti e visitatori, prima scandalizzati dal gesto, ora entrano a ringraziare e sentono più appartenenza che violenza, condividono quel senso di rinascita che si intravvede nelle foglioline verdi sempre più dirompenti. Una condivisione prevista e auspicata dallo stesso artista: “Questo è un lavoro aperto, non blindato, le piante possono crescere come vogliono, come quello che gli gira intorno. In questo sono l’anti Kubrick, non voglio controllare che l’intensità: quella deve essere a mille”.
IL CASO MODIGLIANA E I PROGETTI FUTURI DI COSSIO
L’entusiasmo di Cossio è anche proiettato verso il futuro: “Il mio è un immaginario molto chiaro, come Christo ho bisogno di masse forti. Per questo voglio andare sul territorio: lì il mio lavoro ha sbocchi. Vorrei poi continuare la performance, ho in mente strutture, colori. Per esempio, voglio fare un giardino: qui, tra le case, ci sono quei bellissimi giardini borghesi, io li vorrei blu o rosa. Sono sfide e allo stesso tempo un oggetto estetico forte, d’impatto”. Sarà complicato, Cossio ne è consapevole: è già successo che i suoi lavori fossero poco compresi e (nonostante i pareri favorevoli di botanici come Mancuso) fossero visti unicamente come gesti di violenza: “Se l’esito finale di questo lavoro è la Land Art, so già che ci saranno un mare di problemi: un mio lavoro realizzato a Modigliana, in Romagna, per il Festival dei Sentieri Agrourbani, è stato rimosso senza alcun confronto, sto ricevendo denunce e ci sono molte polemiche. Intanto il gelso che ho dipinto sta continuando a crescere!”. Ecco che l’arte riesce anche a mostrare i punti deboli, la carne scoperta di chi la osserva: “Mi piace che esca l’ipocrisia: là dove prosciugano i torrenti per irrigare i campi di kiwi mi fanno storie perché ho dipinto un gelso. Per indicare questa ipocrisia spesso porto l’esempio delle rotonde: le piante delle rotonde sono tutte ben curate dai giardinieri, ma sono quotidianamente attaccate dalle polveri sottili delle migliaia di auto che attraversano gli incroci. Non credo sia gradevole per un iris stare a corso Magenta, ma noi lo facciamo comunque”.
La rimozione dell’opera, atto che la stessa assessora alla Cultura di Modigliana Rosa Grasso ci riporta come gravissimo ed esempio di censura de facto, è ipocrita anche in un senso più ampio. Nella visione di Cossio, infatti, anche gli esseri umani sono come le stesse piante che modellano: bloccati e intrappolati, uniformati e levigati. Fino a che, proprio come durante la pandemia, il nostro distacco diventa talmente forte da farci notare la sua innaturalità, e spingerci ad accorciare le distanze dagli altri e da noi. Forse serve trovarsi alla luce di un neon, nella serra che chiamiamo casa, per realizzare che quel volto che ci fissa dallo schermo di un cellulare è il nostro riflesso: non ci resta che, come in quel libro per bambini, aspettare che la neve sia sciolta del tutto, uscire e ridipingere ogni cosa.
‒ Giulia Giaume
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