Corpo, amore e intimità nelle opere tessili di Erin M. Riley
Parte dal corpo e dalle sue caratteristiche più intime l’artista Erin M. Riley, per poi darne una personalissima interpretazione ricorrendo alla lana e al cotone.
“Treasure weaver”, tessitrice di tesori, sono le due parole che Erin M. Riley sfoggia tatuate addosso in enorme elaborato corsivo, la prima subito sotto il seno e l’altra appena sopra il pube. E tessitrice questa 36enne di Cape Cod lo è senz’altro: le sue due lauree, presso il Massachusetts College of Art and Design e la Tyler School of Art, sono entrambe in quella che chiamiamo fiber art.
Occupazione tradizionalmente “femminile”, l’attività tessile è ormai diventata un’arte squisitamente “femminista”. Così l’intero universo di riferimento di questa artista si circoscrive nel cosiddetto “donnesco”, anche in quegli angoli che una volta si consideravano vergognosi, da nascondere, e che oggi invece sono diventati spalancati portatori di significati di affermazione se non di orgoglio, a partire dal sangue mestruale.
LE OPERE DI ERIN M. RILEY
Come per molte sue colleghe sparse per il mondo, dunque, anche Erin Riley concentra le sue attenzioni sul corpo femminile, e in particolare su quel corpo che più facilmente trova a disposizione, il proprio. Le sue opere partono difatti da intime osservazioni di sé, realizzate di norma attraverso fotografie – via smartphone, ovvio – sovente allo specchio, in pratica quel che in casi qualunque chiameremmo dei selfie. L’oggetto è il suo corpo, si diceva, ripreso in particolare nelle zone più scabrose, quelle più strettamente attinenti alla sfera sessuale: di sopra, di sotto, sul davanti, sul retro.
L’operazione in sé non si presenterebbe affatto originale, riconosciamolo, se non fosse la specifica foggia in cui viene presentata: le sue immagini, da banali fotografie che erano, vengono riprodotte tessute in lana e cotone con mimetica artigianalità. L’effetto finale è una sorta di grezza “pixelatura” che rende meno realistiche le singole visioni, sfocandone in parte la crudezza iniziale.
Perché crudezza? Perché il metodo di autoanalisi, si sarà capito, è d’ispirazione che potremmo chiamare punk: molto veristico, poco poetico. Accanto a natiche e capezzoli, tra un tatuaggio e l’altro, mentre la protagonista si esibisce sul wc o sdraiata a masturbarsi, di contorno ci vengono serviti appunto tampax impregnati di sangue, preservativi usati, siringhe, pistole, rotoli di banconote, schermi di computer con still porno (di preferenza saffici), e così andando.
Si possono considerare immagini erotiche? Chissà. Di sicuro quasi tutte autoerotiche. Quel che appare evidente difatti è l’ossessiva – non solo sua, ma si direbbe generazionale – carenza d’affetto, che si esplica in un contrario spasmodico slancio di egolatria. Una tempesta dell’anima che un po’ suscita tenerezza e un po’ spavento.
IL PROBLEMA DELL’AMORE
Verrebbe da pensare che, in questi frangenti così sociologicamente (e psicologicamente) smarriti, alla crisi del maschio, ampiamente acclarata, si accodi anche una sopraggiunta nuova crisi della femmina, diversa da quelle già tragiche storicizzate in passato. Il desiderio d’amore rimane, e ci mancherebbe altro; ma sempre più ciò che manca è l’amore in assoluto. Amarsi da soli è un surrogato, lo sappiamo, di soddisfazione sì ma incompleta e passeggera. All’esigente angioletto Eros non basta qualche nudità e qualche impudicizia; vuole anche altri confronti, altri abbandoni. Riley li cerca, quei “tesori”: ci prova, tra il tormento e l’estasi, un po’ disordinatamente e angustiatamente. Speriamo che prima o poi raggiunga la felicità – lei e tante (e tanti) come lei.
‒ Ferruccio Giromini
https://erinmriley.com/home.html
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
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