I diari di Pietro Marino. Il nuovo libro del giornalista storico della Gazzetta del Mezzogiorno
Sarà presentato il 22 ottobre al Teatro Kursaal Santalucia di Bari. Il libro, racconta vent’anni di arte contemporanea in Puglia. Una storia di Italia e del Mezzogiorno.
Pietro Marino, giornalista, critico d’arte e docente, al compimento dei suoi novant’anni, rilegge le vicende artistiche baresi, nel libro “Diari dell’arte Levante Bari 1960-1980”, in uscita per Gangemi Editori. Protagonista in prima persona delle vicende narrate e testimone oculare di quelle restanti, Marino ricuce con dovizia documentaria una storia iniziata quando Bari volge alla modernità con dinamiche e ambizioni di larga gittata. In questo travolgente ventennio, in cui l’arte ha un ruolo centrale, la trama degli eventi riporta in luce il dibattito tra tradizione e innovazione e la fragilità di un sistema locale del contemporaneo ancora orfano di una struttura stabile e di un punto di riferimento istituzionale. Al centro delle vicende l’apertura, nel 1970, dell’Accademia di Belle Arti che celebra il cinquantenario (slittato causa Covid) con una serie di iniziative, di cui anche il volume, che sarà presentato al Teatro Kursaal Santalucia recentemente rinnovato e con un intervento di Alfredo Pirri (di cui abbiamo parlato qui) è parte integrante. Ne parliamo con l’autore per comprendere quale sia il senso di tale rilettura che, oltre a riposizionare gli eventi, unisce i fili di una storia illuminante anche per il presente.
Come mai hai deciso di raccontare la storia dell’arte contemporanea a Bari, in quel preciso arco temporale?
Il libro, concepito come un Istant book, è nato da un progetto sui cinquant’anni dell’Accademia di Belle Arti di Bari da celebrare, con contributi critici differenti, in una pubblicazione collettiva curata dal direttore Giancarlo Chielli. All’interno del volume doveva esserci anche un mio intervento che alla fine è stato convertito in un testo autonomo. Si tratta di un pezzo di storia necessaria per comprendere il restante mezzo secolo di arte e per legare la nascita dell’Accademia allo sviluppo della città. Io parto dagli anni Sessanta, non perché funzionino come retroscena, ma perché rappresentano, da molti punti di vista, un fecondo avvio, un punto di svolta rispetto al passato.
Difficile stabilire in quale categoria inserire il libro, una storia della città e del suo rapporto con il contemporaneo, raccontata in prima persona. Come mai hai scelto questa modalità soggettiva, ripresa anche nel titolo, dove la parola «diari» rimanda esplicitamente ad un’interiorizzazione dei fatti?
Sono stato protagonista o comunque testimone del passato di cui mi occupo e questo spiega la narrazione in soggettiva. Non certo per autocelebrarmi ma semplicemente perché non ho scritto una storia dell’arte in senso critico, ma piuttosto una storia sociale, un memoir. Idea richiamata sia dall’impaginazione, dove le note fanno parte del testo e sono state pensate con appunti a margine, sia dalle immagini non riferite a opere ma a personaggi, agli attori di una scena affollata in cui molte generazioni si sono incontrate e scontrate. Ho concentrato l’attenzione sul sistema, sui premi, sulle istituzioni, sulle gallerie, opzione che mi ha consentito di operare in una cornice socio-economica. Del resto, il titolo del libro si rifà a una pubblicazione del 1969 «Bari città levante», alla quale partecipai anch’io, in cui si avviava una riflessione sulla Bari che stava scomparendo, da salvare o da lasciarsi alle spalle, unitamente al dibattito su quella nuova che avanzava.
Entrando nel vivo del racconto, quali sono gli avvenimenti che preparano la nascita dell’Accademia?
Il 1970, anno di costituzione dell’Accademia, stabilisce l’atto conclusivo di un processo di consolidamento della formazione artistica a Bari, cominciato negli anni ’50 con l’istituto d’arte e poi con il liceo artistico. Nel Sessanta si apre la galleria Centrosei che porta avanti un progetto d’avanguardia all’interno di un clima in cui si registrano episodi di rottura. Nel libro, ricordo l’installazione di tubi innocenti del giovane designer Mauro Castellani, e il superamento dello storico conflitto tra figurativo e astrattismo con il passaggio ad una sensibilità pop. Tutto questo fermento, a livello istituzionale, si lega alla lunga storia del Maggio di Bari, nato nel 1951, che proprio negli anni Sessanta compie la sua autorivoluzione. Già nel ’63 quando si apre ad altri linguaggi, dal design alla scultura, superando in tal modo la tradizione dei premi, per esempio Teramo o Mochetti, destinati solo alla pittura. Questa fervente serie di eventi costituisce un antefatto per numerosi episodi degni di nota. Uno per tutti, la galleria «La Metopa» di Vettor Pisani e Gianni Leone poi trasmigrata ne «La gironda» che, in quel clima interdisciplinare, guarda al teatro e invita il Living Theatre.
Lo schema che segui non è cronologico, ci sono balzi indietro e poi riavvolgimenti in avanti secondo un tempo che, ricordi attraverso la citazione calviniana della città di Berenice, sigilla passato presente e futuro. Ti ritrovi dunque in un tempo liquido?
Andare a ritroso significa focalizzare alcuni punti essenziali, riprendendo anche la vicenda di Pascali, come caso simbolico, e i conseguenti premi a lui dedicati che portano a Bari artisti come Agnetti o Patella. A partire dal 1971, passo in successione i grandi eventi di quell’anno particolare: la mostra sugli aspetti dell’Informale, quella sugli artisti americani dove si rivela la presenza in città della grande collezione di Angelo Baldassarre e, infine, l’apertura della galleria Bonomo. Guardo anche al futuro e non a caso sulla copertina c’è il progetto della nuova Accademia di Belle arti che prossimamente sarà inaugurata nel Parco Rossani.
Quali avvenimenti chiudono il ventennio esaminato?
Nella seconda metà degli anni Settanta, lo spartiacque è costituito dalla locale ventata poverista antropologica e, in parallelo, dagli anni di piombo che si concludono con la morte di Moro. Una vicenda in grado di travolgere l’intera classe dirigente pugliese che aveva supportato lo statista. Da un punto di vista sociologico e dei dati macroeconomici, la prospettiva di una città in totale espansione comincia a entrare in crisi proprio in questo periodo fino a lambire il riflusso degli imminenti anni Ottanta. Significativa risulta anche la storia di Expo Arte, a partire dal 1976, che cerca di posizionarsi nel mercato del contemporaneo, colmando una lacuna nel sistema dell’arte a Sud.
Dove è finito questo patrimonio di progettualità e perché queste spinte propulsive sono cadute? Insomma, qual è la morale?
Ripercorrendo questo passato si capisce che le energie si disperdono se non si può contare su una struttura stabile, chiamiamola pure museo o centro per l’arte contemporanea. Resta pertanto inalterata l’esigenza di uno spazio di promozione e di ricerca, di collegamento internazionale che favorisca l’uscita dal provincialismo. Aggiungo che in quegli anni con il Maggio di Bari e con Expo Arte si avviò anche una campagna acquisti, contribuendo a capitalizzare una storia della cultura visiva che andrebbe valorizzata. Ricalibrando l’intero sistema, in vista di una futura rete museale, potrebbero avere un diverso ruolo anche le istituzioni già operanti sul territorio, la Pinacoteca della Città Metropolitana, il Museo Civico o la Fondazione Pino Pascali.
-Marilena Di Tursi
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