Il nuovo Umanesimo di Claudio Costa e Hermann Nitsch a Venezia
La galleria Michela Rizzo ospita un dialogo tra due grandi autori fatto di oggetti e azioni, alla riscoperta del concetto di “uomo” e del suo significato per la contemporaneità.
Nell’incipit della sua Lettera sull’Umanismo Martin Heidegger scrive: “Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità”. La stessa cosa potrebbe forse essere estesa al nostro modo di intendere la verità e la conoscenza, laddove un pensiero o un’affermazione sono ritenuti tanto più veri e affidabili quanto più coincidono con la realtà. E altrettanto si potrebbe dire sul modo di concepire l’uomo come animale alternativamente razionale, sociale, morale, spirituale. Di farlo coincidere insomma con il complesso delle relazioni visibili e invisibili che lo legano al contesto. Hermann Nitsch (Vienna, 1938) e Claudio Costa (Tirana, 1942 – Genova, 1995), pur seguendo percorsi artistici e intellettuali distinti, sottolineano l’inadeguatezza di un umanesimo così inteso e la necessità di una nuova antropologia, di un ricalcolo delle coordinate di intersezione fra individuo, società e mondo. Un umanesimo che sia in grado, come direbbe Heidegger, di “dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza”.
L’UOMO SENZA L’UOMO
Come sottolinea il curatore della mostra Stefano Castelli, in entrambi gli autori il discorso sull’uomo è intavolato in sua assenza. La persona non viene raffigurata ma è costantemente evocata, suggerita, messa in discussione. Per Costa gli oggetti, in Nitsch le azioni – nonché le vestigia da queste prodotte – sono altrettante metonimie della figura umana. Una sorta di tentativo di tracciare un perimetro concettuale. Una definizione al negativo che permette di liberare l’idea dalle sovrastrutture culturali, politiche, socioeconomiche e religiose.
OLTRE IL READY-MADE
La ricerca di Claudio Costa sta alla pratica dell’objet trouvé più o meno come Un paio di scarpe di van Gogh sta all’orinatoio di Duchamp. Opere come Attrezzi e falce o Macinatrice d’Africa, in cui strumenti agricoli e cimeli africani sono sottratti al flusso quotidiano d’uso e consumo, sembrano testimoniare la vicinanza di Costa alla lezione del maestro francese. A uno sguardo più attento, tuttavia, la pratica di Costa si rivela sostanzialmente differente: gli artefatti non vengono trasfigurati dall’artista in oggetti di contemplazione estetica. La loro ricollocazione non serve a conferire nuovi e superiori significati ma a s-velarne l’essenza, a strappare il velo della funzione per riportare alla luce, come altrettanti reperti archeologici, la vita che li ha resi possibili ma che è stata rimossa. E che, come avviene per gli stivali sgualciti di van Gogh, proprio grazie a questa rimozione diventa ancor più evidente.
IL SACRUM FACERE DI NITSCH
I Relitti costituiscono il nucleo più numeroso di lavori di Nitsch presenti in mostra: vesti, sindoni, fasciature, tele in cui sangue, liquidi corporei e colore si mescolano e impastano fino a ibridarsi, non sono semplici tracce delle performance realizzate dall’artista ma testimoni “parlanti”, eterni, costantemente “attivabili” attraverso la relazione con il pubblico. Sono il risultato di una dispersione energetica, di un surplus vitale che viene irradiato nel gesto performativo in maniera anti-economica, anti-produttiva, anti-capitalistica, sacrificale, per poi rapprendersi nell’opera d’arte, il sacrum per eccellenza. Il luogo in cui, ancora una volta e forse definitivamente, sottrarsi a quelle logiche utilitaristiche che vorrebbero imporsi come unico metro di giudizio di chi siamo e di quello che facciamo.
‒ Irene Bagnara
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