Il corpo in mostra a Milano. Intervista alla curatrice Francesca Alfano Miglietti
In occasione della grande mostra “Corpus Domini” al Palazzo Reale di Milano appena inaugurata, la curatrice spiega il vero senso della rassegna e quale sia il compito dell’arte ai giorni nostri.
Non è una mostra collettiva di artisti, Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, appena inaugurata a Palazzo Reale, a Milano. Questo perché, nonostante vanti alcuni dei nomi più grandi dell’arte contemporanea, non si concentra tanto sui 34 artisti internazionali, quanto sulle 111 opere esposte: a dirlo è la stessa curatrice Francesca Alfano Miglietti, critica e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera nota con l’acronimo FAM.
Video e performance, installazioni e sculture, disegni, dipinti e fotografie condividono un unico tema, ciò che ci accomuna tutti come esseri umani: il corpo. Abbiamo parlato con FAM di questa mostra, che – spaziando dalla Body art all’Iperrealismo fino alle opere più contemporanee – realizza la promessa del direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina, di offrire un segnale di ripresa fondendo allo stesso tempo l’antico, il moderno e il contemporaneo in un’istituzione che non ha paura di osare.
INTERVISTA A FAM
La gestazione della mostra è durata anni, con tutte le difficoltà del selezionare opere così diverse e numerose. Ci racconta qualcosa in più?
Ci ho messo il cuore, l’anima, i reni, tutto. Volevamo una grande mostra di opere che componessero, una per una, un appello. Gli uomini giganti e minuscoli di Zharko Baheski e il corpo del bambino migrante di Franko B, l’uomo incinto di Marc Quinn e le donne perfette ma senz’anima di Carole A. Feuerman, tutte le opere mettono in mostra una serie di “paure non dette”, a partire dal nostro rapporto con la scienza. Per esempio, solo con la manipolazione ormonale abbiamo conosciuto i parti iper-gemellari: quanto può mancare agli uomini giganti o minuscoli? Quello che questa mostra è in grado di fare, guardando all’evoluzione della società e al materializzarsi delle nostre paure, è lasciarci un messaggio: “Poi non si dica che non l’avevamo detto”.
È per questo che diverse opere sono un pugno nello stomaco?
Gli artisti non vogliono spaventare gli spettatori, né rassicurarli, solo mostrare i pensieri che ci caratterizzano, e farci capire che possiamo cambiare le cose se ci mettiamo tutti insieme.
In questo spirito comune si manifesta il dialogo tra le opere, scelte e accostate perché mostrano e invitano a guardare allo stesso orizzonte. È la direzione collettiva, a cui tenevamo, quella a cui guardano anche le scarpe dell’opera di Chiharu Shiota.
È questo invito il senso dell’arte in generale, per lei?
L’arte non è consolatoria, né decorativa, né estranea alle nostre vite: ci aiuta e ci permette di capire. È un ruolo che ha sempre avuto, se immaginiamo cosa ha fatto Picasso, cosa hanno fatto gli artisti dell’Arte Povera, e tantissimi altri. Ogni volta che leggo le notizie sull’arte sembra si parli solo di record, la tela più grande, il pezzo più costoso. Anche per questo c’è una grande solitudine negli artisti: l’arte è un appello, e può fare tantissimo. Le poche volte che ho parlato con collezionisti si tiravano sempre di mezzo i soldi, ma per quello basta spacciare. L’arte deve dare coscienza: non c’è etica senza estetica (e viceversa), e la bellezza che fa riflettere è molto diversa dalla bellezza che decora. Quando a Lea Vergine chiesero la differenza tra design e arte, rispose che nessuno si è mai commosso per una sedia. Non è diverso da quella frase di Dostoevskij: “Per quel quadro si può perdere la fede”.
LA MOSTRA SUL CORPO A MILANO
Questa mostra è ampia e ambiziosa, il direttore Piraina dice che lei è “bulimica” e l’hanno dovuta limitare.
[Ride]. Sono nata di sette chili, non posso che pensare in grande. Questa mostra contiene molti nomi, è sempre una gioia lavorare con gli altri: da soli non si va da nessuna parte. Devo ringraziare Domenico per aver dato spazio qui anche a opere con cui non concorda: questo fa di lui un direttore grande, oltre che come persona. Io odio l’idea di chiudermi in una setta: ogni mio progetto è frutto dell’amicizia, e questo crea alleanze dove c’è anche diversità. Amo chi è diverso da me perché mi insegna un modo di pensare: noi siamo l’altro.
Con che spirito ci si deve approcciare a questa mostra?
Con gli occhi aperti e puliti. Se volete studiare cosa c’è dietro le opere, fatelo solo dopo averle guardate davvero, dopo esservi concessi del tempo. Qui nessuno deve sentirsi visitatore, ma parte dell’opera: noi dobbiamo sentirci pezzo di stoffa di Boltanski o una scarpa di Shiota.
Mi piacerebbe che ciascuno uscisse con un proprio pensiero: l’arte è viva e deve farci aprire gli occhi. Godard diceva che “se la tv ci fa abbassare la testa, il cinema ce la alza”: questa mostra vuol fare la stessa cosa.
GLI ARTISTI E IL CORPO
Ci sono dei grandissimi nomi in mostra e, nel catalogo Marsilio, compaiono anche artisti e intellettuali con le loro ultime opere e parole.
È come se non fossero mai morti davvero. Lea Vergine, a cui abbiamo dedicato la mostra e che avrebbe dovuto curarla prima della malattia, Christian Boltanski, che partecipa qui con la sua ultima opera, e Gino Strada, il cui ultimo testo è nel nostro catalogo, condividevano tutti una visione rotonda e profonda dell’umano. È proprio quello che fa la mostra: qui si parla di umanità, di povertà e corpi che spariscono, per questo ci sono vestiti vuoti e scarpe, fazzoletti e valigie. Io ho lavorato molto con il corpo, nel corso degli anni, e ho visto che ci sono categorie umane che non hanno diritto all’immagine, a un nome, un cognome e una professione: sono i migranti, i poveri, i senzatetto. L’assenza dei loro corpi doveva essere comunicata. È anche il motivo per cui bisogna venire di persona alla mostra, guardare le immagini non comunica quel vuoto.
Questa mostra ci avvicina alla scienza, come spesso accade a Palazzo Reale, e al concetto di comunità: due tematiche a cui siamo molto vicini da due anni.
La pandemia si è inserita con forza nella mostra, che dopo il Covid ha acquisito di più le caratteristiche di “ritratto dell’umanità”. Questo non fa altro che dimostrare l’attualità di ciò di cui parliamo e la necessità di reinventarsi nell’incontro con gli altri. Siamo tutti connessi e dobbiamo proteggerci l’un l’altro, e non in tono solo politico: il vero messaggio di questa mostra è poetico.
‒ Giulia Giaume
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