La mostra-performance di Anne Imhof a Parigi
Dal 21 al 24 ottobre, Anne Imhof, Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 2017, presenta al Palais de Tokyo di Parigi un’installazione di dipinti, disegni, video, audio, sculture e performance che stravolgono le sale sgombre e marmoree del museo per trasformarlo in una Factory warholiana.
È un luogo notturno, metropolitano il Palais de Tokyo rivisitato da Anne Imhof (Giessen, 1978). Pareti a faccia vista, materassi a terra, luci basse ed effetti sonori di speaker che girano su binari appesi al soffitto alternandosi, nei richiami, dalle scale di servizio fino ai piani rialzati e ai sotterranei. Non a caso, dopo le Tanks della Tate Modern, è di nuovo uno spazio interrato ad accogliere l’ultimo spettacolo ideato e diretto da Imhof, la quale chiama a raccolta l’arte che negli anni l’ha ispirata e accompagnata e gli artisti con cui collabora ‒ tra cui l’immancabile musa e compagna Eliza Douglas.
IMHOF E GLI ALTRI ARTISTI
Se il carattere performativo, interdisciplinare del lavoro di Imhof emerge dalla mostra come una forza che rompe le restrizioni di genere perché ‒ chi fa arte lo sa ‒ è l’energia che conta, c’è anche una nuova ambizione che si delinea e che sposta l’artista lontano dai riflettori per la sua prima monografica in un contesto museale. Imhof sceglie di esporre se stessa tra, ad esempio, Ah Youth di Mike Kelley e Natures Mortes di Francis Picabia. Una gouache senza titolo di Eva Hesse, uno dei disegni per la Radeau de la Meduse di Théodore Géricault. Axial Age di Sigmar Polke, una stampa di Piranesi, tele e foto di Cy Twombly e così via. È stata la stessa Imhof a selezionare le opere, trasformando un debutto da primo attore in una presentazione del suo lavoro in relazione con l’arte che l’ha formata, oltre che con il Palais de Tokyo.
Passage (2021), il tunnel di lastre di vetro, per metà scultura, per l’altra metà opera di design che inaugura l’esposizione, diventa veicolo tra opere vecchie e nuove, coinvolgendole in un gioco di riflessi. Finite/ Infinite (2010) di Elaine Sturtevant, il video a colori di un cane che sfreccia in loop, come un dannato dell’inferno dantesco, dialoga con la foto in bianco e nero An der Isar (2008) di Wolfgang Tillmans: un ragazzo che dorme a terra, di notte, sul ciglio di qualcosa, un orto forse, un’aiuola, un sentiero? Più avanti, la proiezione di Day’s End (1975) di Gordon Matta-Clark, volendo, la si potrebbe guardare come il ragazzo della foto di Tillmans, sdraiati su uno dei materassi di Imhof.
LA MOSTRA/PERFORMANCE DI IMHOF A PARIGI
I rimandi alle atmosfere notturne e a quelle della street culture accompagnano la mostra, in cui trovano spazio lavori che rimandano (alcuni più nostalgicamente di altri) ai luoghi, ai tempi e alle ore per gli eccessi. Phat Free (1995-99), il video di David Hammons che si fa riprendere con un lungo cappotto per le strade di New York City mentre porta in giro un vecchio secchio di latta a suon di calci. La foto di Cy Twombly: Bed Room Buena Vista, l’immagine di un letto, in primo piano, inquadrato frontalmente; un letto senza spalliera, sfatto, i cuscini sgualciti contro il muro e sopra il volto di una statua che sembra venir fuori dalla parete. È il passato? La classicità che ispira e pesa sui sonni di un giovane americano in Italia negli Anni Ottanta?
MORTE E VITA
Il ritratto che Imhof ci lascia di se stessa, frammentato in più pezzi: la giacca di pelle nera appesa al muro con sotto, a terra, un piccolo cumulo di zucchero raffinato (2020); un sacco da boxe (2016), una batteria, un casco di bronzo, dorato e lucido, possono essere interpretati come i simboli di una quotidianità di corse in moto e pugilato, di rapimento e vertigine. La giacca è vuota però, il casco è un pezzo inanimato di passato, il sacco da pugile è fermo. Per quanto travolgente sia la vita, la morte è inevitabile. Ma non è la fine dopotutto. Al senso di vanitas si alterna quello della necessità di continuare a credere nell’assurdità della vita. La musica che era in pausa riprende a correre attraverso gli speaker, la confusione di colore e forza ritorna a battere nelle tele/ graffiti di Eliza Douglas per esempio, nei gesti vivi dei pennelli di Joan Mitchell ne La Grande Vallée (1984) nei video nati dalla collaborazione tra Imhof e Douglas: Wave (2021), Faust, (2017) Sex, (2019) e persino in Deathwish (2021).
Con musica composta da Douglas che, a torso nudo, si avvicina e allontana dalla telecamera oltre un muretto di fiori a campana, Deathwish è una danza con la morte. Lo sfondo è nero pesto, i fiori sono accesi di giallo, ma appassiranno quanto appassirà la figura androgina in pantaloni rigati che si muove sinuosamente intorno a loro, senza avvicinarsi troppo, senza perderli di vista. Eppure la danza continua nella sua incomprensibile serietà, continua per la figura dai capelli lunghi e i pantaloni tracks, continua per i fiori, per Anne Imhof che gira il video e per noi che lo guardiamo.
‒ Maria Pia Masella
Parigi // dal 21 al 24 ottobre 2021
Anne Imhof, Natures Mortes
PALAIS DE TOKYO
13, avenue du Président Wilson
www.palaisdetokyo.com
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