Una mostra vuota in un negozio di fiori. Succede a Napoli

Che cos’è una mostra? Quali sono i suoi strumenti di lettura? A chi si rivolge? Il progetto curatoriale realizzato da Alessia Volpe presso l’inedito spazio Tarsia a Napoli porta alla ribalta interrogativi sul senso e sui contenuti della dimensione espositiva.

Il variegato paesaggio dell’arte contemporanea non sembra essersi sottratto al processo di ricostruzione delle forme costitutive innescato dalla pandemia, proponendo riflessioni, nuove abitudini e nuove visioni, anche nella declinazione del rapporto con il pubblico. Nel progetto di ricerca That the Body Is a Chorus, Bound to Disappear curato da Alessia Volpe presso Tarsia, lo spazio non profit incluso in un negozio di piante e fiori nel centro di Napoli, fondato dall’artista Antonio Della Corte, il pubblico è privato della visione plastica delle opere, ma è accompagnato dalla parola ed è guidato dall’ascolto. Dispiegandosi nel tempo, come in un loop, l’esperienza della fruizione si dilata nell’invisibile, perdendosi nel canto di Luzie Meyer, nelle scritte naïf di Florence Jung e nei testi nichilistici e provocatori dell’International Necronautical Society (INS), per lasciare a chi osserva la possibilità di immaginare altri modi di essere e di non essere di una mostra. Ne abbiamo parlato con la curatrice Alessia Volpe.

INTERVISTA AD ALESSIA VOLPE

Nel testo presentato in occasione dell’inaugurazione, si legge che è la scomparsa a essere l’anima del progetto, che non è una mostra, non quella intesa come “evento”, ma una sorta di pulizia dello sguardo sul mondo dell’arte, perché gli occhi si posano su un semplice negozio di piante e fiori. Il pubblico è invitato a sperimentare l’atto dello scomparire, non potendo vedere prodotti né percepire un concetto fisso. In un’epoca in cui scomparire sembra un’impresa quasi impossibile, cosa significa esporre qualcosa che non si vede?
Intendo la scomparsa come trasformazione. Nei mesi precedenti a questa mostra rileggevo la tragedia greca e mi accorgevo di osservare il coro non nella sua funzione drammatico-narrativa, ma piuttosto nel suo essere elemento scultoreo, che appare e si sposta sul palco, riducendosi nel tempo, in importanza e dimensione, fino a scomparire. Ma il teatro esiste ancora, si è trasformato, adattandosi, alle nuove esigenze dello spettatore. Mi sono chiesta se si potesse fare lo stesso con una mostra, ho riflettuto su tutti gli elementi che ne compongono l’apparato e li ho invertiti: sono andata contro le necessità di comunicazione e le caratteristiche di instagrammabilità, ho dato un titolo lungo e complicato che sembra una citazione, Luzie ha nascosto il dispositivo da cui proviene il suo sound work, Florence ha spostato la sua performance nel negozio dall’altro lato della strada.

Qual è il risultato?
La sola documentazione prodotta è un video a camera fissa, che sembra fare il verso alle videocamere di sorveglianza che menziono nel testo, quelle che conserveranno la memoria delle stupidaggini di cui ci siamo resi colpevoli quando tutti saremo scomparsi e una nuova specie colonizzerà la Terra. Il video ha la lunghezza del canto di Luzie (2’16’’) ed è rivolto verso l’esterno inquadrando la strada fuori da Tarsia, come a voler fissare un momento di realtà imponendogli la stessa durata di un’opera d’arte. Dopotutto, non c’è niente da inquadrare all’interno, se non il consueto allestimento di piante e fiori in vendita. Ma non è quella la mostra. Non c’è niente da vedere qui, è solo un negozio di piante e fiori.

Sono andata contro le necessità di comunicazione e le caratteristiche di instagrammabilità, ho dato un titolo lungo e complicato che sembra una citazione”.

Il tuo intervento curatoriale agisce direttamente nello spazio dell’arte, quello che non si vede, come una sorta di autovalutazione di sistema, che, dopo il fermo dovuto al Covid, sembra una necessità ancora più forte. L’assenza diviene una traccia di qualcosa che non c’è più ma anche di una mancanza, di un bisogno di riempire. Cosa devono colmare le mostre oggi?
Pensavo al concetto di “eterotopia” di Foucault: mondi dentro mondi, spazi connessi ad altri spazi, ma in modo tale da sospendere o neutralizzare l’insieme dei rapporti che essi designano o riflettono. Come uno spazio d’arte incorporato in un negozio di piante e fiori. Pensavo all’espressione “museo obbligatorio” ‒ che Achille Bonito Oliva usava riferendosi alle commissioni artistiche all’interno delle stazioni della metropolitana di Napoli ‒ e ho immaginato una soluzione per cui fosse possibile entrare a comprare un cactus, ascoltare un canto in sottofondo e magari chiedersi cosa sia.

I bigliettini di Florence Jung, il testo del madrigale del Lamento di Arianna cantato da Luzie Meyer e i brani dell’International Necronautical Society (INS) fanno della parola più di un virtuosismo concettuale, la rendono un’arma che rifiuta lirismi, nozionismi e sentimentalismi. Può l’arte essere il terreno in cui forme di letterature e sperimentazioni verbo-visuali vengono affrontate, trasformate e ampliate, aprendo la strada a nuove e multidisciplinari pratiche di resistenza?
I tre paragrafi del testo iniziano con tutti con “We”, come una dichiarazione universale, di cui mi assumo ironicamente la responsabilità. Siamo tutti ormai stanchi di sentir parlare di pandemia, ma è sembrato allo stesso tempo improbabile pensare di poter affrontare uno spazio culturale durante i postumi di questa, senza prenderne in considerazione le conseguenze. Desideravo che l’input fosse testuale per compensare la sensazione di smarrimento di una mostra vuota, tuttavia lo scritto fornisce delle coordinate senza però veramente raccontare: i riferimenti alle opere e agli artisti sono nelle note a piè di pagina (è stata Florence a suggerirmelo), come se tutti noi del sistema-arte fossimo ospiti di un sistema-altro, che ci accoglie, ma a cui non possiamo imporre le nostre regole. Parlare di morte e scomparsa in uno spazio che espone e vende piante e fiori, pieno di umidità e fotosintesi clorofilliana, credo sia una pratica di resistenza, ma anche di scongiuro.

Francesca Blandino

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Francesca Blandino

Francesca Blandino

Francesca Blandino nasce a Benevento nel 1986. Specializzata in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università Suor Orsola Benicasa di Napoli, sviluppa un forte interesse per le pratiche artistiche rivolte al sociale. Nel 2012 frequenta il Master in Curatore Museale e di…

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