Raccontare il processo creativo. Quattro artisti dialogano con quattro curatori
In occasione della mostra Ex post², che raccoglie alla Galleria Civica di Trento l’opera di quattro artisti ai quali l’Archivio trentino Documentazione Artisti Contemporanei del Mart ha dedicato una monografia nell’ultimo biennio, pubblichiamo quattro interviste tra gli artisti Michele Parisi, Pietro Weber, Veronica de Giovanelli e il collettivo Mali Weil con i critici che ne hanno curato la monografia
Quattro artisti e quattro curatori. Dopo l’uscita delle singole monografie e la mostra che li ha riuniti alla Galleria Civica di Trento, ecco le interviste. Per capire più a fondo il processo creativo di ognuno di loro.
MICHELE PARISI IN DIALOGO CON DANIELE CAPRA
Ti sei formato come pittore all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ma parallelamente hai portato avanti la fotografia come pratica, come mestiere. Per realizzare le tue opere impieghi usualmente entrambi i media. Ci puoi raccontare la modalità esecutiva e come ci sei arrivato?
Partendo dalla scrittura, come genesi del percorso, mi trovo a un certo punto coinvolto nell’impiegare più pratiche per quella che sarà la restituzione pittorica. Dove non arriva la parola opera la fotografia, come appunto visivo che mi permette di dar forma al visibile. In quell’azione in cui le impronte di luce vanno a fissarsi sulla lastra o sulla pellicola prendono vita quelle che chiamo geografie della memoria. La pittura è invece esercizio di stratificazione di segni e colore che ripercorrono la superficie, alterano o cancellano le forme, ridipingendo e riaffermando l’immagine. È come la memoria, spesso ci troviamo molto vicini alla soglia del ricordo, senza tuttavia ricordare realmente.
Da un lato, grazie alla luce, realizzi un prelievo di una porzione di realtà con metodo fotografico, che riproduci sulla tela preparata con le gelatine. Ma poi senti la necessità di manipolarla. Cosa ti porta prima a desiderare dei pezzi di realtà e poi a volerli plasmare/riscrivere con un linguaggio personale?
Ho sempre trovato affascinante tutto questo. Basti pensare all’emozione e alla meraviglia di trovare delle orme di animali nella neve fresca, i segni di un passaggio lungo un sentiero, un fuoco spento, l’orma sulla sabbia. Come ha scritto Rosalind Krauss, ognuno di questi segni implica una presenza che c’è stata, ed è dotato di un’aura potentissima. Plinio fa nascere la pittura per mano della figlia del vasaio Butade che, per amore, traccia con un carbone il profilo del suo amato. Quando prelevo della luce, si compie un atto d’amore verso le cose, ma la pittura si somma a tutto questo, perché idealizza quell’immagine. L’esatto e il vero sono diversi. Ironicamente, possiamo dire che l’orma fotografica è l’esatto, mentre ciò che immagino pittoricamente ci sia stato su quell’orma è il vero.
Ti capita sia di usare dei modelli che posano per te sia di scattare delle foto di luoghi che incontri, spesso combinando le immagini. Come scegli i tuoi soggetti?
Come diceva Alda Merini, “anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo”. Non mi interessa quindi una ricerca assidua del soggetto. Quello che mi attrae è dove non arriva la parola, dove sento che un qualcosa viene emanato e non lo posso cogliere, se non con la pittura. Mi attrae il senso di estraniamento, di fermo e monumentale. Penso sia necessario fare opere che riguardano luoghi o situazioni in cui, quando te ne vai, senti che ti dispiace.
Le tue opere suggeriscono silenzio e stasi. Sono finestre atemporali che inducono a rallentare, sia per il tono cromatico che per l’assenza dell’elemento umano, come spesso accade nelle foto di architettura. Cosa ti piace di questa condizione metafisica?
La sospensione, il rallentamento, l’atemporalità, così come l’enigma, il sogno, sono condizioni dove io mi trovo a mio agio. Frequento poche persone, passo molto tempo da solo e penso che con l’arte cerchiamo di delineare un nostro profilo, come la figlia del vasaio Butade. Kundera scriveva che il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria, il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. All’idea di memoria e di oblio ho dedicato gran parte del mio lavoro.
– Daniele Capra
PIETRO WEBER IN DIALOGO CON JESSICA BIANCHERA
La tua vita pare animata da due spinte opposte. Una che ti lega alla tua terra, il Trentino, e alla scelta di ritornarci in una sorta di quiete contemplativa. L’altra, invece, quella più dinamica del viaggiatore interessato a scoprire mondi e culture. Come questa tensione si riversa nel tuo lavoro?
La prima, il luogo dove ho scelto di vivere, è il luogo dove sono nato e al quale sono profondamente legato. Dopo aver trascorso diversi anni lontano da casa, la scelta di tornare non è stata difficile da prendere. Viaggiare mi ha sempre dato molta ispirazione, oltre a stimolare la mia curiosità verso mondi molto distanti dal mio, che si sono in un certo modo riversati nel mio quotidiano e in ciò che realizzo in laboratorio.
A un certo punto della tua carriera hai deciso di dedicarti a un unico medium scegliendo di lavorare esclusivamente attraverso la modellazione della terracotta dipinta. Come nasce la tua fascinazione per questa tecnica e da cosa deriva la totale dedizione a essa?
Il modellato, la scultura, la materia sono sempre stati la mia predilezione rispetto alla pittura. Nel corso della vita ho lavorato i più svariati materiali: il legno, la calce, il ferro, i tessuti… L’amore per la terracotta scatta da uno dei miei viaggi in Turchia, visitando alcune collezioni di antiche ceramiche. Rientrato in studio, è stato per me naturale approcciarmi alla terra. Le varie materie con cui ho creato nell’arco della mia produzione, dopo brevi o più lunghi periodi, sono state poi abbandonate perché non mi davano stimoli sufficienti. La terracotta, invece, dopo vent’anni è ancora per me infinita fonte di sfide e di piacere del contatto fisico.
La tua pratica è legata al fare, a sperimentare e manipolare la materia. Il tuo è un lavoro a-progettuale, eppure dimostra una complessità di fonti e di strutture, sia a livello concettuale che stilistico. Come realizzi le tue opere?
Il processo non è semplice da descrivere. L’incipit può essere un oggetto o un’immagine. Quando sono di fronte a un blocco di argilla, esso stesso mi dà lo stimolo di partenza, ma, dopo un po’ di lavoro, quell’idea iniziale svanisce e il processo diventa del tutto libero. Le mie mani non sono mosse dalla mente o da idee predeterminate, ma dall’istinto e dal sentire di quel momento. Anche per questo motivo le opere sono irripetibili. Il momento, quel particolare sentire, dura un breve lasso di tempo e poi mi abbandona per sempre.
Il tuo lavoro si organizza quasi sempre per serie e molti dei titoli scelti testimoniano una fascinazione mistica, che però difficilmente possiamo ricondurre a una precisa tradizione. Come nascono e come si collocano nell’economia generale del tuo lavoro?
Talvolta mi capita di affrontare percorsi in cui le varie opere hanno un filo conduttore. Possono essere legate a un luogo che ha un passato, a una storia, e allora seguo una logica che la possa sintetizzare. Per esempio Le sentinelle nascono per essere posizionate all’interno di una residenza sabauda, il Castello di Agliè a Torino, che mi ha fornito l’idea. A volte invece mi concentro su elementi singoli, come per esempio le Teste. Ci ho lavorato per un periodo finché non si è esaurita l’ispirazione. Gli Arcani, al contrario, nascono come vera e propria serie, su invito di un caro amico collezionista di tarocchi, che mi disse che alcune mie opere gli ricordavano proprio i suoi mazzi di carte. Mi propose una mostra, combinata alla sua collezione, e fu subito chiara l’affinità tra i miei lavori e gli Arcani delle carte. Spesso sono gli altri a portare alla luce interpretazioni che io stesso non avrei mai immaginato.
– Jessica Bianchera
VERONICA DE GIOVANELLI IN DIALOGO CON ANGEL MOYA GARCIA
Nel tuo lavoro le sfumature, le pennellate, i raschiamenti, gli strati e le sgocciolature della pittura sviscerano il rapporto fra l’uomo e i luoghi. In che modo si intrecciano il tuo vissuto personale e gli ambienti che vediamo nei tuoi lavori?
In genere i miei lavori non si riferiscono a un luogo reale, ma rimandano a posti indefiniti e solo evocati. Eppure i luoghi che ho vissuto hanno sicuramente plasmato il mio modo di vedere il paesaggio e influenzato la mia visione: il luogo dove sono nata e cresciuta, il Trentino, ma anche la laguna di Venezia o, per esempio, i fiordi norvegesi recentemente vissuti al Nordic Artists’ Center Dale. Il mio lavoro è frutto di diverse esperienze personali, ma non si esaurisce nei luoghi conosciuti. Anche poesia, cinema, mappe o illustrazioni antiche sono fonti immaginifiche fondamentali per la creazione degli ambienti che si scorgono nelle mie opere.
Il rapporto tra elementi antropizzati ed elementi naturali, tra uomo e luoghi abitati, rientra nelle tue principali urgenze come artista. Tuttavia, dell’essere umano cogliamo solo le sue tracce, i residui di un vissuto, di un passaggio, di un’intrusione. Come vedi questo rapporto e in che modo esso viene formalizzato nei tuoi dipinti?
Seppur indirettamente, l’ombra dell’uomo è sempre presente nei miei lavori. Un paesaggio che percepiamo come naturale, e che sembra totalmente incontaminato, in realtà non lo è. Nella mia pittura talvolta questa presenza è sottolineata dalle linee rette, da forme artificiali, da campiture piatte in contrasto con le tracce di una pittura liquida e che si muove sulla tela in maniera quasi incontrollabile. Altre volte sono invece i colori, sempre meno naturali, che rimandando a scenari drammatici. E che ci parlano di una natura che non sembra nella realtà esistere.
Uno degli aspetti che mi ha sempre colpito del tuo lavoro è il fatto che l’orizzonte si intraveda quasi per errore, come un limite imposto. Da quali considerazioni nasce tale scelta? Che ruolo riveste per te questa ambiguità dei confini naturali?
Un’immagine che presenta una linea retta orizzontale può facilmente evocare un paesaggio. Questo può aiutare la lettura di un’immagine, ma può anche esserne un limite. L’orizzonte divide il piano terrestre da quello aereo su una linea spesso definita, però mai raggiungibile. Se ci si concentra troppo sull’orizzonte si rischia di perdere tutto ciò che gli sta attorno. Gradualmente l’orizzonte scompare al mio sguardo per lasciare spazio ad altri riferimenti, nel tentativo di discostarmi progressivamente dai canoni classici del paesaggio. Nei miei dipinti l’orizzonte è sempre più spesso solamente accennato, a volte ribaltato o addirittura eliminato.
La tua pratica pittorica torna spesso su se stessa in un processo costante di tentativi e verifiche. Questo aspetto diventa una continua sovrapposizione di memorie, un processo di scrittura e riscrittura, come si evince dalla stratigrafia compositiva dei lavori. In che modo riconosci il confine tra un lavoro ultimato e un processo pittorico ancora in divenire?
Il tempo è lo strumento che mi permette di digerire l’immagine che sto costruendo. Il dialogo attivo e costante con l’opera, in divenire, è frutto di tentativi, correzioni e contro-correzioni che, piano piano, mi portano ad accogliere la direzione migliore, la quale progressivamente si rivela. Molte soluzioni possono apparentemente risolvere l’enigma, ma è necessario lasciar decantare le nostre percezioni. Solo il tempo permette di maturare quello sguardo esterno che consente, prima o poi, di smettere di andare avanti.
– Angel Moya Garcia
IL COLLETTIVO MALI WEIL IN DIALOGO CON GABRIELE LORENZONI
Performance espanse che diventano video installazioni, oggetti di design, immagine, progetti culturali ed editoriali. Quale percorso segue Mali Weil nel proprio lavoro?
Il cuore di ogni lavoro è un atto performativo. Talvolta è difficile da isolare, perché col tempo ho iniziato a concepire la performance come un atto valutabile dalla sua capacità di permeare la realtà circostante, superando i limiti spazio-temporali che spesso il contesto produttivo impone. Un articolo di giornale, un public talk sono, per me, parti di una performance diffusa. Questo mi ha portato a ragionare sul potere performativo dell’oggetto di design, ma anche a immaginare e realizzare oggetti capaci di indurre il fruitore ad assumere una determinata posizione fisica e mentale, a narrare la storia che portano con sé ancora e ancora, rendendo queste persone i più importanti performer del mio lavoro.
Cos’è invece Forests?
Forests nasce come una ricerca sulla foresta come assemblaggio di relazioni biologiche, linguistiche e giuridiche. Fin dalle sue origini infatti la parola “foresta” ha impresso l’atto di un re che avoca a sé un bosco come riserva di caccia personale, costringendo tutti gli altri a foris stare. Un atto che lacera un passato relazionale di consuetudini e la continuità tra villaggio e foresta, fatta di usi civici e beni comuni. Forests immagina soprattutto come questo complesso intrico relazionale possa trasformare l’immaginario politico occidentale contemporaneo.
In quale modo?
Forests poggia su un doppio movimento performativo: Forests | Unlearning che lavora sulla decostruzione del concetto occidentale di foresta e Forests | Experimenting che, a partire dall’antropologia contemporanea e dal discorso mito-poietico di popolazioni strettamente legate alla foresta, inanella un’iniziatica litania di mondi possibili, in cui inaugurare nuovi significati della parola cittadinanza. Ma le performance si traducono in altro: installazioni, programmi curati e Companions: una collezione di figure/sculture/feticci che vorrebbe riscrivere l’immaginario relazionale dei giochi per bambini, introducendo antiche divinità femminili, funghi, termiti, uomini-giaguaro in sostituzione del classico orsacchiotto di peluche. L’ultimo step è la produzione di un film di cui alcune parti sono presentate in anteprima nell’installazione Forests | Dreaming. Il film racconta le trasformazioni che l’atto di passare la foresta ha innescato nel mio modo di vedere, pensare e sognare, racchiudendo insieme il perdersi e la delimitazione del suo spazio concettuale. Ne ho fatto sostanzialmente un paradigma su come la foresta sposti alcune categorie fondanti del pensiero occidentale, come per esempio quelle di soggetto o di individuo.
L’opera che hai presentato alla Galleria Civica è nel suo dispiegarsi un’articolata composizione narrativa che unisce elementi giuridici e onirici. Come hai lavorato (e stai lavorando) su un video, a tre canali, che integra anche parola e musica?
In Forests c’è una parte nascosta e incompiuta: una ricerca sul linguaggio di cui ancora non sono venuta a capo e che penso troverà spazio in progetti futuri. Le parole dei bambini, divinità fuori dal tempo che col loro incessante lavorio tessono le relazioni della foresta, sono tracce di questo tentativo incompleto. La musica subentra nei momenti in cui fallisce il discorso antropologico-poetico che il mio alter ego video porta avanti: sono concepite come risposta a un’afasia teorica, e si muovono così sul terreno della creazione di miti. Con il compositore Nicola Segatta abbiamo ad esempio messo in musica il testo del bando di Chilperico I, del VI secolo d.C., che equiparava legalmente, e dunque di fatto, i fuorilegge a bestie selvatiche. La musica, infatti, spesso arriva dove il linguaggio non può spingersi.
– Gabriele Lorenzoni
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