L’artista Jimmie Durham raccontato da Dora Stiefelmeier e Mario Pieroni

Il film, il rapporto con la compagna Maria Theresa Alves, la guerra in Vietnam, le opere, il Leone d’Oro. Dora Stiefelmeier e Mario raccontano ad Alessandra Mammì la loro vita e amicizia con Jimmie Durham

Cominciamo col dire ‘cosa e chi’ non è Jimmie Durham. Non è il guru di un credo ecologico. Non cerca lo spirito ecumenico che abbraccia uomini, animali e piante. Non è dotato di un pensiero magico. Ha sempre lottato per i diritti dei nativi di America, ma pur avendo forti radici nella sua cultura, detestava essere definito “artista Cherokee” o peggio ancora pellerossa.  Per capire Jimmie Durham, la sua poetica e il suo lavoro è necessario allontanarsi da alcune immagini di folklore che abbiamo letto dopo la sua recente scomparsa”.  Comincia così questa conversazione con Dora Stiefelmeier e Mario Pieroni nella solare sede romana di RAM, Radio Arte Mobile, nel cuore dell’Esquilino. Un tentativo di circoscrivere un uomo esageratamente “larger than life”: artista e poeta, militante e filosofo, saggista e performer, cantante e cineasta a suo modo. Loro, Mario e Dora, sono stati i suoi compagni di strada, gli amici e sostenitori più sinceri. L’avevano incontrato molti anni prima grazie a Jan Hoet, quando Jimmie arrivava in Europa da Cuernavaca dove aveva seguito il filosofo cristiano, eccentrico teologo e libero pensatore Ivan Illich.  

IL CORTOMETRAGGIO DI JIMMIE DURHAM 

Per quanto potessero sembrare lontane, la dottrina del filosofo e le creazioni poetico-artistiche di Durham avevano invece molti punti in contatto”, ricorda Dora. Per esempio: la necessità di un rapporto umano che vince sul determinismo economico e scientifico; le virtù di un pensiero anarchico anti-establishment; il richiamo alla coerenza e al rigore; una visione della storia non più eurocentrica; l’impegno quotidiano; la ricerca etica e la pratica “garbata e gioiosa” della propria disciplina. Il tutto, nel caso di Durham, unito a una precisione assoluta e meticolosa, necessaria a costruire quei lavori complessi, macchine di “objets trouvés” dall’architettura improvvisa, ma mai affidata al disordine o al caos.  Ricorda Dora: “Nella prima scena del suo film “La Poursuite du Bonheur”, che abbiamo girato a Paliano, si vede una strada disseminata di decine di oggetti e pattume d’ogni genere: pezzi di plastica, carte, ossa, vetri… Ebbene, quando abbiamo ripulito il set, Jimmie si accorse che all’appello mancava un ossicino minuscolo di non più di due centimetri. In quanto parte dell’opera, costrinse tutti a lanciarsi in una ricerca ossessiva, finché non fu trovato. Questo, come esempio della sorprendente capacità di controllo sul lavoro. Ma ogni cosa in lui era sorprendente. Il segreto per capirlo come uomo e artista è essere disposti a cambiare continuamente il punto di vista”.  Già, è un vero esempio la “Poursuite du Bonheur” prodotto grazie a Zerynthia, girato insieme a Maria Theresa Alves coregista e cameramen (nonché artista non comune e sua compagna di vita e di lavoro), interpretato, se così si può dire, dagli amici e colleghi. Val la pena di rivederli quei 12 minuti di cortometraggio ironico-sperimentale.  

CHI ERA JIMMIE DURHAM SECONDO I PIERONI 

Apologo stravagante e irriverente sul sistema dell’arte e persino su se stesso con Anri Sala nei panni dell’artista indiano d’America Joe Hill e Mario Pieroni nel ruolo di Max Boldo, gallerista di Denver o forse di Los Angeles come ci avvertono i titoli di testa, mentre quelli di coda durano più del film.   È anche questo il punto di vista di Jimmie, l’angolo sghembo della sua ironia che gelava gli intervistatori quando alla domanda “perché ha scelto di vivere a Berlino?” si sentivano rispondere: “Se ti piacciono il cattivo tempo, il cattivo cibo e la gente fredda… è la città ideale”. Oppure veniva usata come arma contro il giornalista che cercava di iscriverlo in un’etichetta: “Avrei voluto tanto essere un’artista concettuale, ma non avevo concetti”. 

Jimmie Durham. Photo © William Nicholson

Jimmie Durham. Photo © William Nicholson

L’ESPERIENZA DELLA GUERRA IN VIETNAM 

Ridono Mario e Dora ricordando il suo gentile sarcasmo, l’insolito che si manifestava nei minimi gesti quotidiani: “Camminare per strada accanto a lui era una vera esperienza, si fermava decine di volte per raccogliere cose che gli altri gettavano. Aveva un occhio da falco riusciva a vedere oggetti infinitesimali e negli oggetti quello che non riuscivamo più a vedere noi. E diceva ‘Nella mia mente il vetro rivela sua energia solo quando è rotto’” . Anche la sua energia era a volte dirompente, perché per Mario: “l’ironia e la gioia di vivere erano direttamente proporzionali alla sua rabbia. Sapeva essere furioso, conosceva l’esplosione della violenza. Conosceva anche la crudeltà. L’aveva vista in faccia quando aveva combattuto in Vietnam e vissuto da vicino dolore e morte della guerra. Non ne parlava volentieri, ma un’esperienza tanto radicale non poteva non far parte della sua elaborazione. Anche da lì nasceva quella forza apparentemente distruttiva che si manifestava nel lavoro in quel gettare e rompere oggetti fino a trasformare lo spazio intorno. Oppure accarezzare e sfogliare un fiore con tenerezza per poi addentarlo all’improvviso e mangiarlo. Ma quel rompere, quello spezzare o aggredire l’ordine e la forma non era un gesto di distruzione, piuttosto di trasformazione. Nasceva dal bisogno di modificare la realtà che è in fondo la missione di ogni artista”. E per Dora e Mario, Jimmie era in tutto un artista che amava vivere con altri artisti.  A cominciare da Maria Theresa Alves sua moglie. “Bravissima e intensa. Non hanno mai fatto cose insieme, ma c’era un dialogo ininterrotto fra loro due. Si erano conosciuti all’Onu: lui era lì in difesa dei nativi americani; lei in rappresentanza degli indios brasiliani da cui discendeva. Aveva solo 16 anni Maria Teresa, ma da quel momento non si sono più separati”.   

I Martedì Critici. Alberto Dambruoso, Jannis Kounellis e Guglielmo Gigliotti. Photo Sebastiano Luciano

I Martedì Critici. Alberto Dambruoso, Jannis Kounellis e Guglielmo Gigliotti. Photo Sebastiano Luciano

DURHAM: IL DIALOGO CON KOUNELLIS 

E profondo fu anche il dialogo con Jannis Kounellisdopo aver esposto uno accanto all’altro (proprio nella sede di RAM alla mostra dicembre2006/gennaio 2oo7, ndr) nella mostra “Deposizione” con i piombi di Kounellis a confronto con i vetri rotti di Durham, l’artista più ideologico in tête à tête con quello più anti-ideologico, un omaggio alla “Morte di Marat” di David per l’uno, un omaggio alla materia per l’altro. La celebrazione che incontra la distruzione”. Cambiamo il punto di vista dunque e percorriamo le tante diagonali necessarie e a seguire Jimmie Durham la sua in-coerenza, l’integrità, la saggezza, il rigore anarchico. Quello che gli ha fatto rifiutare per ben due volte il padiglione americano alla Biennale di Venezia “non sono i loro i veri americani”, aveva detto ai suoi amici. Ma anche quel bisogno di cambiare le regole che gli ha fatto intonare una delle sue poesie come meraviglioso e irrituale ringraziamento nel ricevere due anni fa il Leone d’Oro alla carriera dalle mani di Ralph Rugoff. Perché “sono un poeta” diceva, e la poesia per lui raccoglieva tutto.  “Non voleva riconoscere differenza fra la sua attività di scultore, scrittore, performer. Praticava il suo lavoro come un tutt’uno. Un tutt’uno con la sua stessa vita. Era un artista assoluto”.  Come lui stesso scrisse agli studenti del corso alla Fondazione Ratti: “Arte è una parola meravigliosa ricca pesante e assolutamente ambigua è stata coniata tantissimo tempo fa e mantiene il suo significato originario quando significava creare connessioni, raccogliere…”. E nelle connessioni che Durham faceva ricadere sotto la parola arte c’erano anche le umane relazioni, le corrispondenze emotive e intellettuali, le amicizie coltivate attraverso le sue opere che usava anche come nodi per non spezzare mai il filo di un rapporto. Quello con Dora e Mario ad esempio: “Le sue poesie nascevano spontaneamente e arrivavano all’improvviso. A volte ci chiamava e le cantava al telefono, altre le inviava come messaggi”. L’ultima, poche ore prima della sua scomparsa, sullo smartphone di Dora recitava “Sono rimasto solo con me stesso, la mia ombra e il mio eco”.  

Alessandra Mammì 

 

  

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