Cosa succede se Goya viene trasformato in un codice cromatico?
Quella che vi apprestate a leggere non è una recensione “classica”, ma un testo interpretativo scritto dal poeta Claudio Damiani dopo la visita alla disorientante mostra di Roberto Pietrosanti alla Nuova Pesa di Roma
Oggi si potrebbe fare un’app (forse già esiste) che dalla foto di un quadro famoso (ma anche di una qualsiasi immagine) rilevi i vari colori per visualizzarli poi in strisce più o meno spesse a seconda della percentuale di superficie, degli accostamenti ecc., restituendo del quadro solo i colori, senza le forme, come se i pigmenti tornassero, dal quadro, alla tavolozza. Se andate alla Nuova Pesa a Roma a vedere la mostra Codici / GOYA di Roberto Pietrosanti, vi troverete davanti a dei quadretti formato libro che, in strisce orizzontali, riportano i colori di un famoso affresco di Goya nella cupola dell’Eremo di San Antonio de la Florida a Madrid. E penserete: “Il solito lavoro concettuale, che si riduce a un’idea, nemmeno tanto originale”. E anche: “Ah, si potrebbe fare un’app di questa roba”.
IL LAVORO CERTOSINO DI ROBERTO PIETROSANTI
Se però vi avvicinate ai piccoli quadri, cominciate a cambiare idea: le strisce non sono pennellate manuali né tantomeno inchiostro di stampante. Se guardate ancor più attentamente, vi accorgete che sono fili molto sottili. I quadri sono forse come rocchetti montati su una macchina che avvolge i fili? Se continuate a guardare vi accorgete di una cosa che vi fa rizzare i capelli: c’è una precisione incredibile, una macchina non può essere così precisa. Siete davanti a una manualità che ha del magico. Oltre alla magia pensate anche a quanto tempo l’artista deve aver speso per realizzare il lavoro. Notate poi che ogni singolo quadro si riferisce (cioè riporta i colori con le proporzioni ecc.) a uno spicchio o “frammento” (così li chiama l’autore in una descrizione riportata sul suo sito ufficiale) del tondo dell’affresco del grande Goya. E vi accorgete che sui colori di ognuno degli otto spicchi in cui Pietrosanti ha diviso l’affresco sono stati realizzati non uno, ma tre quadri. Come se il primo fosse solo un primo contatto con i colori dell’opera, una specie di lavoro introduttivo, di incontro a caldo, o scontro. Il secondo fosse qualcosa di più approfondito, come uno studio analitico, maggiormente dettagliato e al tempo stesso, anche, più sintetico, capace, dai dettagli, di risalire all’insieme, alla vera forma del tutto. E come se il terzo fosse infine, dopo lo studio già svolto, con quei colori assorbiti fin nel profondo del corpo, e della mente, un’interpretazione più libera e forse più vera di tutte.
Al concettuale non pensiamo più, siamo davanti a un’opera d’arte di oggi, di questi nostri anni, che stiamo vivendo. L’arte torna a quella manualità antica che sempre l’ha caratterizzata, e con quella manualità fa scaturire l’infinità di significati che caratterizza l’arte stessa (altra magia, la più importante), valida in ogni tempo, perché ogni tempo sempre nuovi ne trova, come un pozzo senza fondo.
I CODICI COLORE DI GOYA COME SE FOSSERO ICONE
Ora lo spettatore non dice più davanti a un’opera (e se lo diceva era comunque una sciocchezza): “Questo lo so fare anch’io”. Non sta più davanti a una negazione, a una critica del mondo. Sta davanti a un’accettazione nella forma di un’imitazione (l’antica geniale definizione aristotelica dell’arte) che è però un originale. Sta davanti a un ego che si annulla e umilia per accogliere il mondo, accoglierlo filo su filo come grano su grano di rosario in una preghiera infinita, soli deo gratia, non per il pubblico ma prima di tutto per sé, come i pittori di icone (e alle icone russe assomigliano questi quadretti nella piccolezza, e anche ai libri, oggetti piccoli ma pieni di pensiero, immagini storie sentimenti emozioni).
E poi, dopo che abbiamo sentito quanto tempo, quanta preghiera interminabile e contemplazione e riflessione è condensata in queste opere, e quanta tecnica strepitosa e magica, e il tutto potrebbe pesarci come un macigno, fiaccarci e farci cadere, ecco che invece l’opera ci appare incredibilmente leggera, vivace e sbarazzina come un fanciullo. Entriamo finalmente nei colori, li sentiamo come veramente sono: immateriali. E ci sentiamo anche noi immateriali. E saliamo, ascendiamo.
– Claudio Damiani
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